tre domande, tre poesie
Federico Morando, nato a Torino nel 1996, diplomato in Arti del Teatro Musicale, è attualmente iscritto al percorso di laurea triennale presso la Scuola Holden. Dopo aver maturato esperienze sul palco sia da interprete che da insegnante, torna a dedicare la propria attenzione alla scrittura, all’editoria e alla comunicazione. Nell’ambito della poesia, il primo tentativo si traduce nella raccolta L’atlante dei silenzi, pubblicata nel 2017 da un piccolo progetto editoriale di Roma. In seguito, nel 2021, per Chance Edizioni è pubblicato il primo romanzo, Il tempo amaro dei salici. Nello stesso anno, la raccolta La conta del sale, edita da Capire Edizioni, risulta prima classificata al Premio Nazionale di Poesia di Campogalliano. Nell’estate del 2022, una raccolta inedita di versi vince il Premio Nazionale di Poesia di Villa delle Ginestre, di cui alcuni componimenti risultano sul podio del Premio Aurelia Josz di Milano.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “L’amore esausto”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
La scintilla che ha portato a “L’amore esausto”, Interno Libri, in realtà, è stato un mio allontanamento dalla poesia: avevo scritto dei versi, li avevo divisi in sezioni per me ideali, per poi lasciarli in un cassetto – testandone l’efficacia a qualche concorso, di tanto in tanto, e non scrivendo più neanche un singolo componimento. Questa raccolta poi si è ripresentata a me, mesi dopo, e quasi come fosse lei stessa a domandare di essere mandata nel mondo, ho deciso di proporla al panorama editoriale, “senza nulla cercare, cautamente presente”, come direbbe Luciano De Giovanni – tra i poeti che mi stanno più a cuore. E infine, grazie all’immensa fiducia di Andrea Cati, l’editore, “L’amore esausto” ha preso forma, e ora è quel libricino con un ragazzo che porta la luna sul naso. Tutto questo per dire che, a mio parere, la vita – per lo meno la mia – si fa linguaggio in due fasi: la prima è un linguaggio privato, in cui la scrittura, e in questo caso la poesia, si fa strumento personale per l’analisi del mondo che circonda l’io, e dell’io stesso; la seconda, invece, è un linguaggio condiviso, in cui le parole, i versi, le frasi, le metafore, tutto non è più completamente tuo, diventa un immaginario condiviso tra scrittore, editore e lettore, e si fa così più completo, caricandosi di significati esterni, di sguardi diversi, di forme e sfumature nuove – pur non snaturandosi – diventando ciò che deve essere: un dialogo, profondo, tra esseri umani.
La poesia è un destino?
A mio parere, la poesia, più che a un destino, somiglia a un richiamo: non sempre si è capaci, o pronti, a coglierne la voce, in lontananza, ma quando ci si scopre propensi a tale attitudine, non si può far a meno di accorrere, e far propria quell’eco; il destino è qualcosa di già scritto e immutabile, la poesia, invece, è ancora – e per sempre – tutta da scrivere, e riscrivere.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).
Era l’avvento del freddo
a tenere saldo l’abbaglio, gli occhi
agganciati al pizzo,
quell’altrove bianco di neve
dove eternamente imberbi
non conoscevamo nulla:
bastava il prurito dei guanti,
il non temere rimpianti.
*
Sto nel rovescio del tempo
a sgranare un salmo, quell’orlo di organza
in cui celavi la marea – la salvezza
è l’ultima domenica di neve,
il tuo corpo lieve di pane scongelato,
l’idea minima di attesa
per cui annegavi un fiore nella mollica:
quel tuo amore breve di formica.
*
Ho visto il sangue:
l’ho creduto eterno.
V’era la pelle, secca e scura,
e oltre, il viola delle vene,
e oltre – nulla.
Quella che terrei a far emergere, di queste tre, è sicuramente la seconda. È il risultato di tutto un processo di ritorno alle parole, di accettazione del dolore, essendo dedicata a una persona scomparsa: Anna, la madre di mio padre, la nonna che associo, da sempre, a un certo grado di eleganza, e di grazia. La poesia è nata dall’esigenza di fornirne un ritratto sincero, concreto, duraturo, efficace, in cui emergessero, al contempo, l’anima indomita e la tenera fragilità – il fiore annegato nella mollica non è un caso: uno dei ricordi sensoriali più vividi che serbo di lei, è la visione delle sue mani intente a preparare i fiori di zucchina ripieni di macinato fresco, spezie, e, appunto, mollica di pane.