È correndo in “direzioni mai soleggiate” che ci si imbatte inaspettatamente in quegli apici di luce, figli dell’oscurità. Così come il nero, prodigo di significati archetipi, colore della morte, è anche simbolo della madre, colei che dà alla luce. Così come, tra le braccia della propria terra madre, Fernando Lena, nel suo magistrale “Black Sicily”, (edito da “Arcipelago Itaca”, prefato da Francesco Tomada), sviscera la complessità di una vicenda umana che nasce dall’attraversamento di un lutto privato (la perdita del padre) fino a divenire narrazione universale. Racconto di un mondo come del “luttuoso lusso d’essere siciliani”, direbbe Bufalino, concittadino di Lena, del quale apprezzava (come testimonia più estesamente lo stesso Lena) la “capacità di poetare con assoluta naturalezza”.
Perché “Black Sicily”?
Inizio chiarendo la scelta della lingua inglese usata per il titolo del libro per l’appunto Black Sicily. Lo faccio mettendo insieme alcune considerazioni. Credo che la Sicilia come luogo di transito per altri continenti è stata nei secoli la regione che più di tutte in Italia ha accumulato grazie ai popoli che l’hanno dominata una complessità etica ed umana unica, senza poi come non soffermarsi sulla sua bellezza architettonica e artistica, sulla sua multi-etnicità che varia dall’arte culinaria fino a quella linguistica in questo caso mi riferisco ai molteplici dialetti che da città in città variano e si inerpicano nel territorio come veri e propri idiomi. Ma se poi penso che poche di queste ricchezze vengono esportate oltreoceano e che in contrapposizione esiste un altro export chiamato crimine o meglio mafia, sarebbe giusto ammettere che qualcosa non va e paradossalmente è necessario farsi qualche domanda su come questa organizzazione criminale sia riuscita ad imporre il suo linguaggio cruento oltre confine, naturalmente servendosi di una lingua universale, così la scelta di tradurre il titolo del libro in inglese è in parte una sorta di parodia cinica e al tempo stesso inquietante… Una Sicilia nera per l’appunto, anche perché il libro nasce dall’attraversamento di un lutto privato (la scomparsa di mio padre e quindi quale colore più opportuno e ossessivo per celebrare il lutto in questa isola?) che trova nell’oscurità di altre esistenze una idea di rinascita, una sete di luce fortissima (tipica dell’isola) che con fare quasi ciclico al sua apice luminoso haimè riesce ad accecare lasciandoti nuovamente in uno stato di transito e di disorientamento. Un libro in cui l’essere umano vaga aggrappandosi all’immaginazione come possibile incipit per riscrivere una realtà meno dissacrante. Ma non per questo Black Sicily è un libro disperante, con il suo stile di scrittura è anche un poema accogliente, fitto di voci e di vite in caduta libera mentre il dolore sceglie la consapevolezza del bene e del male con una forma di spiritualità fondata sulla resilienza. Black è anche un incubo ideologico, il colore di un fascismo che da sempre in Sicilia ha costruito mausolei di comportamenti radicati nella patriarcalità, inquinati da dogmi di odio e dal dominio silenzioso del potere economico fino a se stesso. E per terminare Black Sicily, perché per me è stato ed è nella sua idea creativa un libro necessario quasi d’amore e anche per questo denso di criticità ma non privo di compassione civile.
Qual è stato ad oggi l’insegnamento più significativo ricevuto in dono dalla poesia?
La poesia potrebbe essere un dono? Nel mio caso forse lo è o meglio viene spesso a bussare come un dono poiché io attendo il verso (anche con periodi lunghissimi) ma non nego che da alcuni anni leggo meno libri di poesia, preferisco leggere narrativa, sporcarmi di storie, attraversare vicende umane che in qualche modo alla fine confluiranno nel mio mondo poetico e diciamo che ho trovato nel mio non rigore poetico una variante di stile anarchica la quale mi spinge a scrivere una prosa poetica ben salda al ritmo e alla musicalità seppur severa e classica quando affronto la struttura del testo. Quindi tutto ciò che mi ha insegnato la poesia è riuscire ad ascoltare l’inquietudine che mi circonda come fosse specchio della mia inquietudine interiore. Un modo di guardarmi mentre il mio caos diventa silenzio, pacificazione di un mondo che vivo ma di sghembo, quasi sempre all’ombra.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Mi prendi un po’ alla sprovvista perché io con la memoria ho seri problemi specie quando devo interrogarla a comando. Però ricordo che ne scrivevo di frequente nell’ora di matematica quando frequentavo l’Istituto Statale D’Arte, allora pensavo che quei versi sarebbero poi confluiti in un testo di una canzone, perché ahimé come qualche altro poeta anch’io sognavo di diventare una rockstar, sai a quei tempi parliamo del 1984 ascoltavo Lou Reed, Nick Drake ecc., e già attraversavo alcune esperienze che non si discostavano dai temi espressi da quella generazione di cantautori diciamo “maledetti”. Ma lo capii in seguito che tutto ciò era poesia, quando qualche anno dopo feci leggere quei versi al professore e scrittore Gesualdo Bufalino, il quale rimase sorpreso della mia capacità di poetare con assoluta naturalezza, almeno così disse lui.
Qual è la tua attuale spiegazione/ definizione di poesia?
Potrei risponderti con le parole di Milo De Angelis, ovvero che la poesia è un genere letterario con le sue regole, le sue tradizioni, la sua metrica e dall’altra un qualcosa che va al di là dei generi, qualcosa di inclassificabile nel tempo. Se devo aggiungere qualcosa di mio, dico che è un sisma nato da uno stato d’animo complesso e incanalato in un pensiero che grida (o almeno ci prova) un senso di libertà, di musicalità, di verità. Certamente un genere arricchito da una vitalità estetica, anche se quando subisce una forzatura, per così dire manieristica, ne perde di autenticità e sprofonda nel paradosso del bello senza anima. Ma per quanto ne abbia ascoltate dalla voce dei poeti di definizioni, nessuna è mai stata uguale alle altre, quindi posso dedurre che forse la poesia è un genere che non si presta alle categorizzazioni, qualcosa di inspiegabile forse.
Per salutare i nostri lettori sceglieresti una poesia del tuo nuovo libro e nel contempo ci condurresti a ritroso nel tempo a prima della stesura completa per raccontarci quanto accaduto, così da permetterci di condividere e comprendere meglio il percorso che l’ha vista nascere?
(un sisma)
All’ospedale guardo sempre il parcheggio
con chi va e chi ci rimane freddo
mentre mi tolgono un po’ di sangue
per capire questa emoglobina impazzita.
Accade un sisma nel plasma
che è un po’ il crollo del mio caos
e cosa c’è infondo di più caotico
di un ex tossico che cerca i valori
di un futuro più obbediente?
Ma loro no, i bambini loro
non obbediscono alle parole dell’infermiera
che con un ago cerca l’attimo dissanguante
e forse noi somigliamo a loro
quando proviamo ad interagire con le ferite
in un dolore che non avremmo voluto
volendo in parte assopire l’inquietudine.
Poi faccio retromarcia
tamponando il carro funebre
di uno di quei becchini in tinta con il lutto
che a volte diventa patrimonio
e spesso debito di una memoria all’ultimo respiro.
Questa poesia è una delle prime scritte, in essa c’è quella traccia narrativa concatenante che rende il libro un poema romanzato. All’interno del testo sono visibili quegli elementi poetici che faranno da collante a tutto il registro espressivo e stilistico, in primis la circolarità dei luoghi messi a fuoco come fossero parte di una sceneggiatura, poi tutte le figure dialoganti e un po’ perse in una dimensione teatrale, naturalmente non manca una certa confessione biografica, non invadente che però detta marginalmente un canto dolente e a tratti bucolico e ironico. Non per caso il tema del lutto mette in scena le sue contraddizioni di “patrimonio o debito” dentro quella espiazione del sangue che userò spesso come fosse un idioma, sviluppando attorno ad esso la prerogativa del bene e del male, ancora una volta in un gioco di contraddizioni, per affrontare i legami familiari (di sangue appunto) e la familiarità della violenza con l’epilogo di un degrado esistenziale inevitabile. Tutto il processo di Black Sicily tuttavia è bene dirlo nasce dall’esperienza umana, sboccia dall’inquietudine di un futuro che si polverizza e contemporaneamente si sedimenta per diventare scrittura, voce che si ripone sulla carta per rimanere indelebile come certe lettere d’amore.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 04.10.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).