MATTEO VECCHIO

Matteo Mario Vecchio vive tra Milano, sua città natale, e la campagna piemontese. Si occupa di poesia, di liturgia e di musica gregoriana. Si interessa di salvaguardia dell’ambiente e di rispetto dei diritti degli animali. Di Antonia Pozzi ha curato Diari e altri scritti (con Onorina Dino; Milano 2008) e Flaubert negli anni della sua formazione letteraria (Torino 2013), nonché gli appunti universitari relativi ai corsi di Antonio Banfi («Rivista di Storia della Filosofia», 1, 2011; 3, 2012).

Quali ti sembrano i segni più riconoscibili – di salute e di malattia – del nostro tempo?

Salute è ritorno alla propria identità più remota e allo stesso tempo sorgiva. Salute è infanzia – l’«eterno paese» di Alain-Fournier –, per me tempo evangelico: tutte le mie mitologie e le mie letture del mondo risiedono lì e lì sono nate. Direi che «salute» è essere se stessi, semplicemente, senza deroga. Malattia è colposa incapacità di comprendere, è adeguazione etica del mondo alla corta gittata e allo spettro comprensivo del proprio naso, è riservare all’altro un trattamento non univoco ma funzionale al proprio personale particolare.

Qual è lo stato della letteratura e della poesia contemporanea dalla tua lente di lettore e di critico?

Come «critico» – definizione di cui ti ringrazio ma alla quale sono forse in parte estraneo –, ma soprattutto (e, direi, quasi soltanto) come «lettore», ritengo che se la sperimentazione (creativa e ideologica) è e opera, nel proprio midollo, come autoreferenziale ed esasperata teatralizzazione di sé, essa allontana dalla terra e dalla vita sia l’uomo che scrive sia l’uomo cui si rivolge. Può, sì, cercare di porsi come potenziale via interpretativa del mondo e della vita; ma la vita, nella sua concreta ferialità, non penso sia riducibile a pur vertiginosi, se cerebrali, lacerti sperimentali. Allorché la sperimentazione – un nome, Zanzotto – è frutto di cardiaca mediazione (rivestita cioè di carne e di «cuore», nel più forte e muscolare senso che alla parola si può attribuire) ed esito di una esperienza e di un itinerarium, e se è, di quest’esperienza, mediato distillarsi nel mondo (e suo condiviso aprirsi all’altro), i suoi trasalimenti fanno sì tralucere e respirare quella conca ove agisce il fuoco dell’esistenza. La vita per me va compresa negli spazi del suo giorno in cui per così dire reitera, séguita i gesti che creano: allorché un uomo prende la legna, accende il fuoco, respira l’odore della terra, la concima, suda, ne schianta i seccumi. Il primato per me va sempre e comunque alla vita.

Come ti sei avvicinato alla lettura e, successivamente, alla scrittura saggistica?

Non lo so. So però che cos’è per me la Montagna: approdare a una frase priva di gore, di fessurazioni, capace di riprodurre tutte le articolazioni del pensiero e le loro dinamiche. Una frase iridescente, potentissima – la cui lettura ferisca –, così che un testo sia una concatenazione quasi necessaria di frasi e di strutture incessantemente percorse da costanti tensioni. Mahler ha scritto di aver voluto, nella propria opera, convocare – sintetizzandolo, stilizzandolo – l’universo. Probabilmente, la montagna da scalare è la medesima.

Che cosa ti spinge a scavare dentro a un testo? Con quale criterio giudichi un’opera?

«Giudicare» è espressione che designa una modalità operativa non mia, poiché, da lettore, mi interessa soprattutto comprendere. Comprendere non significa, naturalmente, giustificare o perdonare, o risarcire o – peggio – celebrare un autore; comprendere significa, per me, guardare al testo da tutte le possibili e praticabili angolature analitiche, e restituirne, a partire da queste, una sintesi organica. Ciò non implica la rinunzia a esprimere e a proporre, a riguardo, una personale lettura – frutto dell’analisi della sintesi ottenuta –, ma essa non dovrebbe essere, mai, valutativa: in questo senso, affermare «non so» non è attestazione, per chi ricerca, di debolezza, ma atto di tenacia e di riconoscimento della bontà metodologica del dubbio.

Premesso che la poesia, la scrittura e il pensiero non conoscono generi, che cosa ti ha spinto a studiare l’opera di poeti donna come Antonia Pozzi, tanto per citare una autrice appartenente alla «singolare generazione» formata dal magistero di Antonio Banfi?

Mi sono occupato di lei e di altre figure a lei prossime (come Vittorio Sereni e Piera Badoni) poiché, probabilmente, nella loro opera complessiva ho intravvisto, in parole e in articolazioni, elementi della mia stessa identità: quel quieto, ampio, feriale vissuto lombardo, quel sentirsi vivi entro una memoria e una identità comprensiva e centrifuga che accoglie, in un sincretismo culturale e in un reciproco arricchimento, ciò che è altro, ciò che è oltre. Identità e memoria si fondano, e da ciò operano, su di un condiviso sostrato culturale: la stagione illuminista, e Manzoni, Dossi, Fogazzaro; ed è come se quella scrittura, quelle articolazioni del pensiero non potessero esistere al di là di queste montagne, di queste città, di queste campagne, di questo dialetto amatissimo, di questi laghi. Devo ammettere ora di non provare più la necessità di aderire al magistero banfiano. Ciò non vuol dire che le sue stratificazioni e i suoi lasciti non si siano in me depositati: comprese le ricadute che l’accostamento a Banfi (e alla Pozzi e a Sereni) ha avuto, le strade che si sono aperte stanno portando in molteplici e altre direzioni, a partire peraltro da quell’ineludibile ceppo formativo. Antonia Pozzi resta; ma a lei si stanno accostando altri, e altre. Lei, ribadisco, tuttavia resta.

La prima emozione legata alla lettura di una poesia?

A livello cronologico, accadde con Arthur Rimbaud e con Emily Dickinson. Quella «estasi fredda del sistema nervoso», quel cortocircuito che ti fa trasalire e dissociare da te, facendoti calare con inaudita e pacificata completezza entro lo spazio delle parole appena lette e già, nel midollo (tuo e loro), tue.

Quanto è importante il silenzio nella tua quotidianità? E la musica?

Il silenzio è importantissimo. A Milano il silenzio è un privilegio artificiale. In campagna è condizione pervasiva, ma perché sia tale deve esserci anche un silenzio dello spazio visivo. La musica è una possibilità che ha il silenzio per declinarsi e riempire uno spazio.

Come vive Matteo Mario Vecchio?

La libertà – e la costante ricerca, la via – si sconta, talvolta, come una condanna.

 

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