Giovanni Parrini, “la maturazione di un’assoluta consapevolezza del linguaggio avviene nella palestra della poesia”.

Giovanni Parrini è nato nel 1967 a Firenze, dove vive e lavora. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: “Nel viaggio” (Lietocolle, 2006, prefazione di Neuro Bonifazi); “Tra segni e sogni” (Manni, 2006, prefazione di Maurizio Cucchi); “Nell’oltre delle cose” (Interlinea 2011, prefazione di Giovanna Ioli, Premio Mario Luzi); “Valichi” (Moretti & Vitali, 2015, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Premio Giuria-Viareggio). Sue poesie sono presenti sull’Almanacco dello Specchio (a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori, 2011), Poesia (Le misure del cielo, n° 284, a cura di Maria Grazia Calandrone, Crocetti Editore, 2013), Nuovi Argomenti (Tra poco, nell’aurora, n° 73, 2016), Gradiva (Antico cascinale, n° 55, 2019).

“[…] il sasso è solo un sasso / non ha nel peso il rimbalzo fantastico, quella scienza puerile / che voleva arrivasse dove dormiva il sole.”. Alcuni versi tratti dalla più recente pubblicazione di Giovanni Parrini, L’occasione e l’oblio, edizioni “Stampa2009”, (Varese, 2019), a cura di Maurizio Cucchi, per introdurre la nostra intervista.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla sua prima poesia?
Frequentavo il secondo anno del classico (che si chiamava, allora, quinto ginnasio). A me, la poesia, piaceva molto leggerla, ricordare a memoria i versi dei grandi autori, lasciarmi coinvolgere completamente. Mettevo giù, di tanto in tanto e senza gran convinzione, poesie e brevissimi pezzi in prosa, ma tutto poi restava fra le pagine di qualche libro oppure guadagnava presto il cestino. Erano timidi tentativi, quelli, dei quali ho un ricordo vago. Un giorno, però, successe che di un mio compagno di classe si seppe che era gravemente malato. Non sarebbe mai tornato sui banchi. Fu proprio quell’evento lì, così terribile, a accendere una più ferma volontà di scrivere. Così, direi per istinto e non senza dolore, riuscii in una quindicina di versi. Quel tentativo mi fece provare la vera e indefinibile emozione che tuttora sento, quando scrivo in poesia. Un’emozione che, ogni tanto, mi ritorna in mente, legata a doppio filo al ricordo di quel lontano dolore. Sì, rammento l’impegno che produssi per tentare di dare alle parole lo stesso peso della pena per quel fatto tremendo. Non so dove finirono quelle righe.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la sua formazione?
Virgilio, che ha esercitato un’influenza primaria, com’è quasi ovvio, e Catullo. Petrarca, più che l’immancabile Dante, un po’ tutti gli stilnovisti, Ariosto e Leopardi; fra quelli del novecento, Sbarbaro e Montale, Luzi e Zanzotto, molto amato, quest’ultimo, soprattutto nelle opere Dietro il paesaggio e IX Ecloghe; Brodskij, Caproni e Sereni. Fra gli stranieri, quelli anglofoni – che posso talora permettermi in lingua originale – Butler Yeats, Dickinson e il compianto Seamus Heaney, alle cui opere sono assai legato; i classici Baudelaire e Valery. Fra i narratori, Buzzati, Calvino, moltissimo Gadda, poi Dickens, Musil e, in particolare, Borges, la cui poetica mi ha sempre affascinato.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?
Ovviamente, amplissimo è il quadro di versi senza tempo, indimenticabili e quindi la scelta si presenta davvero ardua. Ad esempio, il Primo Canto del Paradiso, per il motivo che apre al grandioso spazio dell’ultima cantica, dove l’interazione tra altissima poesia, sapere scientifico e speculazione filosofica, raggiunge vertici strabilianti, soggioganti. O ancora, il sonetto CLXXXIX del Petrarca, per la maestosità di una parola poetica intrisa di umiltà, diminuzione, vicissitudine senza tempo. Citerei poi, almeno per l’effetto che personalmente ha sempre su di me, Le ricordanze di Leopardi, che, oltre al tema fondamentale della dialettica tra passato e presente, è esemplare per l’effetto acustico risultante. Qui, il tempo e le immagini hanno una sonorità che agisce profondamente sul lettore. È la grande modernità di Leopardi, un autore per molti aspetti novecentesco. Altra poesia che ho sempre sentito profondamente è Delta di Montale. Io sono legato un po’ a tutti i poeti liguri – essendo, la Liguria, la mia regione di adozione, per motivi familiari – e, quindi, al pensiero montaliano, che qui spicca per la potenza icastica e per la densità dei significati. C’é il tema joyciano della foce e quello dello sguardo intimo, focalizzato sull’inconscio. Una scrittura in cui nell’occasione particolare c’è l’idea di un infinito sedimentato, di una vita originaria. Non posso poi non citare un testo di notevole caratura, in quanto riflessione in versi sull’istituto e le finalità della poesia, Auctor di Luzi. È molto bella da recitare, fra l’altro, ed è cruciale per il messaggio portato, quello della responsabilità morale di chi è, appunto, autore, cioè soggetto all’obbligo morale dell’autenticità nel creare e anzi ricreare il mondo in parole, tramite la bellezza e anche il dolore dell’esperienza poetica.

Qual è – nell’arco della sua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Non ho un momento particolare per dedicarmi alla poesia, io direi, perché il suo richiamo è costante e, dunque, l’esercizio del pensiero poetico è continuo, in presa diretta con l’esperienza della vita. È invece la trasposizione del pensiero sulla carta ad avere ore necessariamente più definite. Nel mio caso, il pomeriggio, talora fino a tarda sera. E per rivedere ciò che ho scritto, sempre al mattino, in genere prestissimo.

Qual è la sua “attuale” spiegazione/definizione di poesia?
Una domanda difficile, perché la poesia vera, coincidendo con la vita (come tutte le arti, peraltro, se seriamente frequentate) non è così inquadrabile in una cornice che ne possa connotare cause, caratteristiche e finalità. Semmai, una definizione eventuale potrebbe essere quella di potente strumento, direi un utensile, che riesce a aprire squarci di infinito nel finito (un po’ come fa la matematica, con tutt’altri scopi e presupposti, ovviamente), nella nuda realtà delle cose e degli attimi, portandoci fuori dal tempo lineare, cui siamo abituati, disponendoci invece dentro un altro, ciclico, “aiòn”, (αἰών), come era chiamato nella cultura della Grecia classica. Siccome questa distinzione, oggigiorno, può apparire visionaria, da persone non concrete, desidero dirne qualcosa di più, visto che una definizione di poesia passa anche attraverso la sua possibilità interruttiva del tempo usuale, quello misurato dagli orologi. La poesia è potente quanto il logos, ma non analitica e tale da alterare la funzione rigorosa, ordinatrice, con cui quello descrive il reale, cominciando, appunto, proprio dallo scardinamento dell’idea innata di tempo e di temporalità. Allora, la parola poetica è il mezzo espressivo che, con una serie di regole, di metodi e affidandosi a un sentire soggettivo, altera la successione quantitativa degli istanti, lasciando il posto ad aiòn, il quale rinvia al concetto di intermittenza, di anacronia dell’esistenza individuale. Fra i due tempi, c’è un po’ la stessa distinzione pensata da Bergson tra tempo fisico, calcolabile convenzionalmente, e dimensione coscienziale, irriducibile a una logica di sommazione lineare. Trasferendoci dal piano filosofico a quello prettamente letterario, diciamo che la poesia è un linguaggio personalissimo, un “sermo unius viri” che però presenta pure, per lo meno nei suoi essenziali fondamenti generativi, carattere metastorico, etnicamente aspecifico e inesauribile in termini di significato possibile, come notava, anni fa, Massimo Cacciari, asserendo che «poesia è quella forma di linguaggio che non finisce con la sua comprensione». E chi ha la ventura di accostarvisi ed esercitarla diviene più consapevole dell’esserci, vive del mondo una commozione e una bellezza altrimenti offuscate, passate sotto il silenzio derivante dalla mera sopravvivenza.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Mi verrebbe spontanea dire “mai”, dato che una scrittura poetica si radica proprio nell’istinto primordiale di sospendere il tempo e di sfrangiare i troppo definiti contorni di ciò che usualmente chiamiamo realtà. Capisco però che una simile risposta può suonare come un atteggiamento e se ho fatto subito ricorso ad essa è stato per stigmatizzare l’indeterminazione continua che si agita nella parola poetica. Tuttavia, volendo stabilire cosa qui si possa intendere per compiutezza, direi l’equilibrio, l’armonia, dell’insieme costituito da ritmo e da significazione; direi anche, in generale, l’interazione profonda, la corrispondenza biunivoca, fra esperienza della vita quotidiana ed esperienza della parola. Nel rileggere qualsiasi cosa scriviamo, i dubbi tornano, anche quelli che credevamo fugati e ciò accade soprattutto in poesia, proprio a motivo della vaghezza su cui si fonda e di cui vive. Però, se rileggendo e rileggendo con spietatezza critica, vediamo che le figure retoriche sono usate in modo appropriato; che non ci sono parole gratuitamente esornative, fini a se stesse, a sporcare il testo e la musicalità è funzionale al significato che si voleva inviare (e viceversa), allora, sì, una poesia può ritenersi conclusa.

La poesia può (e, se può, in che modo) restituire purezza alla parola?
Quale piccola premessa, credo valga la pena sottolineare l’inquietante deriva che i più importanti linguaggi storici stanno subendo, vuoi sotto la poderosa spinta che i media esercitano, vuoi perché la scuola induce forse troppo poco gli allievi a riflettere sul valore, sul potenziale, di ogni singola parola, sulla responsabilità che l’uso sempre deve comportarne. Stiamo vivendo un periodo in cui il ventaglio dei lemmi usati si è molto ridotto e si preferisce indulgere in un linguaggio parcellizzato, segmentato, che si illude di sostituire, senza conseguenze, alle parole addirittura i pittogrammi: gli emoticon sono un esempio molto aderente. A questo pasticcio, a mio avviso, danno un certo contributo anche diverse opere di narrativa, spesso non tanto distinguibili fra loro, infulcrate come sono sull’idea che il contenuto sia assai più importante dello stile, mentre la verità è opposta. Nel panorama odierno, troppo dominato dalla tecnologia e dall’esistenzialismo, la poesia rappresenta l’elemento reattivo atemporale, l’antidoto all’immediatezza perniciosa su cui pare basarsi ormai il mondo, e all’impressionante superficialità nell’uso del linguaggio, perché essa lavora attraverso il silenzio, l’attenuazione, la rarefazione della parola e a ridosso della morte, risultando quindi un metodo efficace di riflessione, in generale, e di purificazione della lingua, in particolare. Una delle sue caratteristiche è quella di restare a una certa distanza – molto variabile da poeta a poeta, s’intende – dalle cose, recuperandone poi una visione altra, inusitata nel senso comune; offrendone una percezione estetica (la àisthesis, αἴσθησις, greca), sempre cercata dalla natura umana attraverso l’arte, perché necessaria ad integrare la conoscenza razionale, cosiddetta oggettiva, in sé e per sé non bastevole a motivare la vita, evidentemente. Lavorare con la poesia significa scoprire, con molta fatica, ardore, e infine grande lietezza, la meravigliosa varianza di significato che ogni parola può possedere all’interno di una frase, per tale o tal’altro argomento trattato. Quindi, la parola poetica non rappresenta soltanto un atto particolare di espressione attraverso la scrittura – di cui essa non è un sottoinsieme, come si sarebbe tentati di credere ma, semmai, un soprainsieme – ma pure una costante riflessione sul mondo circostante, sulla percezione che ne abbiamo, soprattutto sulle infinite possibilità a nostra disposizione quando lo portiamo sulla pagina. È attraverso quest’esperienza, direi quest’esperimento, che avviene la raffinazione del linguaggio col quale ci esprimiamo e non mi riferisco soltanto al parlato o allo scritto delle persone comuni ma anche a chi scrive in prosa. Non vorrei provocare una reazione avversa da parte dei narratori, ma non temo di asserire che la maturazione di un’assoluta consapevolezza del linguaggio avviene nella palestra della poesia.

Oggigiorno, qual è (ammesso che ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Nell’immaginario collettivo, il poeta, come il filosofo peraltro, sono figure distaccate dalla realtà ordinaria, dai problemi quotidiani. In quest’epoca che trova sostanza e motivazione quasi soltanto nei benefici e nelle comodità che il miracolo tecnologico riesce a portare al singolo individuo e si fonda, in modo pericolosamente semplicistico, sulla religione della materia, sull’indecente volontà del tutto e subito, la poesia rappresenta una sorta di reazione dell’animo, una necessità inconsapevolmente sentita dalla collettività. Se essa può essere giudicata di totale inutilità ma poi permane e anzi pare diffondersi, allora ci deve essere una ragione a tale apparente contraddizione. E la risposta, oggi come ieri e in un futuro comunque lontano, risiede appunto nell’azione delle forme poetiche, il cui obiettivo è quello di riavvicinarci all’enigma della realtà, renderle vaghezza, attraverso un dire remotissimo eppure sempre attuale, sollevandola da dove la relegano i paradigmi dei linguaggi specialistici, soprattutto nella riduzione fattane dalla diffusa azione divulgativa. Al proposito di questo tema, vorrei ricordare che nel primo libro del De vulgari eloquentia, Dante già lo sollevava, parlando del terribile appiattimento del linguaggio usato da coloro che, nella costruzione della torre di Babele, diventavano eccelsi specialisti in una certa attività: «[…] et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur». La lettura che se ne può dare è semplice: la iperspecificità espressiva tipica dell’ambito tecnologico comporta un imbarbarimento di quel miracoloso mezzo che è il linguaggio, sia esso parlato, quanto scritto. È bene che sia chiaro questo punto, però non vorrei attirasse su di me l’accusa di avversione alla tecnologia e ai tecnologi, perché io non ho mai nutrito una posizione tanto sciocca e del tutto irricevibile, peraltro; mi limito soltanto a dire che la nota dantesca è fattuale, riporta un dato oggi lampante. Anche se può sembrare incredibile, la progressiva crisi delle lingue storiche è legata a ciò che l’azione della tecnologia arriva a svolgere nella quotidianità dell’uomo comune, soprattutto riferendomi ai nuovi strumenti della comunicazione, quali i cellulari, come pure all’azione atrofizzante del mezzo televisivo. Fra l’altro, il costo di questo appiattimento è pagato soprattutto dai soggetti giovani, molti dei quali, come denunciano i docenti, comprendono ormai con fatica testi anche relativamente semplici, sanno scrivere sempre meno e, quando lo fanno, è con grande inerzia, anche agli ultimi anni del ciclo di istruzione superiore. Una condizione abbastanza preoccupante, cui lo strumento della poesia può dare un positivo contributo non dico a risolvere, ma a fare comprendere quanto è importante, per un popolo, ritrovare un linguaggio più articolato, meglio definito e limpido, insomma.

Riporterebbe una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ama rifugiarsi?

Oltre a quelle che ho nominato al Punto 3, penso a Nautica celeste, appartenente alla raccolta IX Ecloghe, di Andrea Zanzotto:

Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza.

Desidererei anche citare alcune righe, estratte da Ragazzi di vita di Pasolini, cui sono particolarmente legato anche per la magistrale forza poetica diffusa nel passaggio seguente:

Sono uno sfrattato, dalla guerra e dalla pace, dall’adolescenza, un moretto che deve dimostrare la sua dritteria tra i vapori neri di calce di Roma e le sue periferie canicolari, e questo cielo lercio, rapace e sgangherato.
Quando mi riconcilio con la vita, canto a squarciagola, fumo un pacchetto di nazionali e vado a bagnare nell’Aniene la mia slabbrata e pidocchiosa esistenza, oltre i casamenti in costruzione e gli zatteroni. Ma a volte, resto a gelare sulla riva, quando mi accorgo in ritardo di altre rondini che affogano nel fiume, che la corrente trascina.

Per concludere e salutare i nostri lettori, la invito a scegliere una poesia dal suo recente libro L’occasione e l’oblio, riportandola gentilmente e, nel contempo, a condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto”, così da permetterci di condividere – e comprendere meglio – il percorso che l’ha vista nascere.

Prima della poesia, un brevissimo cenno al libro, costituito da sezioni all’interno delle quali le situazioni, le cose e i vari soggetti comprimari sono legati da un sottile filo narrativo, per così dire; l’io lirico si trova dislocato, attenuato, tende a una relativa dissoluzione su piani temporali e spaziali volutamente vaghi. Questo perché ho inteso dare inizio a un percorso in cui il soggetto non è unico, ma tende a scomporsi nell’alterità, a diventare talora indeterminato, esattamente com’è la vita, anche se ne vogliamo sovente uno schema cartesiano, illusoriamente sicuro e ben funzionante. Detto questo, ho scelto la poesia sottostante, che si trova a pagina 62:

Dai dettagli vorrei fare parole commosse
questo mi auguro
un po’ di brina un tepore di nido
i granelli di terra sulle scarpe
che bastino a far vivere una frase dello stesso fulgore
della stessa incertezza
in questa solitudine
che è pianto, per metà, per metà meraviglia.

Questi versi hanno avuto una gestazione abbastanza lunga, in contrapposizione alla brevitas apparente sulla pagina, prima di tutto perché l’azione dei vari correlativi oggettivi (i granelli, la brina, il nido) deve essere meditata bene; secondariamente, perché la dislocazione delle singole parole mi è stata incerta fino all’ultimo, come pure la scelta metrica.
Sul piano letterale, c’è semplicemente una descrizione di dettagli apparentemente banali, minimi, di cui non percepiamo il miracolo; questa componente visiva è lo strato superficiale, sotto il quale risiede la significazione, la motivazione che mi ha portato a scriverla, cioè la funzione della parola: ovvero quella di trasferire sul foglio la leggerezza e assieme la potenza di quel che si guarda e su cui non si medita; una parola poetica che, in ragione di quanto definiscono il suo presupposto e il suo fine, deve mantenersi appunto fedele al compito, eticamente molto oneroso, di ricreare un universo altro, di attuare, se mi è consentito, una specie di epochè fenomenologica, conferendo a ogni cosa, qualunque essa sia, lo stupore e la freschezza che possono averne i bambini, sacrificata soprattutto oggigiorno a una totalizzante logica classificativa, esemplificativa, esplicativa, insomma a una dimensione troppo pragmatica e utilitaristica. L’interfaccia tra il piano sul quale agisce la parola poetica e il piano dell’oggettività (che tale è presuntivamente ritenuto) è l’irrazionale, il dominio in cui lavorano, inestimabilmente, la commozione e la fantasia. Il significato primo e ultimo che ho dunque voluto dare riguarda, da un lato, l’evidente importanza del linguaggio, a prescindere da cosa esso descrive; dall’altro, la responsabilità morale che ogni autore ha nello scegliere il medium adatto a tale o tal’altro oggetto o situazione, senza mai entrarvi nel merito, per cui infine risultino come indistinguibili le parole dall’oggetto che le aveva attivate e quello ne venga aumentato, ma per distanziamento dal segno congiunturale tramite cui è relegato soltanto a percezione. Il travaglio che un processo di ritrovamento, di ri-creazione, del reale attuato dalla poesia è stigmatizzato nel penultimo verso, che indica nella solitudine la base e l’altezza dell’attività artistica e, nell’ultimo – metricamente, un alessandrino ‒ quanto bello è l’umile abbandono al mutevole mistero dell’esserci, quello privo di tempo, che nei petrarcheschi Trionfi è quanto «non avrà loco “fu” “sarà” ned “era”, | ma “è” solo, in presente, et “ora et “oggi”, | e sola eternità raccolta e ‘ntera».

 

 

Giovanni Parrini, nella fotografia in copertina di Giliola Chisté.

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