Guglielmo Aprile, “la poesia è uno sbilanciamento sul crinale della normalità”

parola d’autore

Il ricordo (o un aneddoto) legato alla prima poesia.
Le prime volte difficilmente sono memorabili… Neanche ricordo, con precisione, in che occasione avvenne: sarà stato ai tempi di scuola, quando, nel tradurre qualche Latino, qualche Simbolista francese, notai che mi ero sganciato dal testo che volevo riportare in Italiano, magari non intenzionalmente, perché ero approdato a un significato non coincidente con quello originario; quindi ci presi sempre più gusto: la molla iniziale, nello scrivere, è un debito di libidine verbale che contraiamo con gli autori letti a sedici anni, quando gli ormoni fanno di noi un Tamerlano, del mondo una pianura in cui imperversare, della lingua un gigantesco corpo femminile che si arrende senza resistenze al demiurgo dei nostri desideri. Fu una scoperta gelosa: ogni parola era un pozzo inesplorato, un granaio inesauribile e un prisma di significati latenti: conteneva una folla di altre parole e a mille altre parole poteva sposarsi; con le parole potevo giocarci all’infinito, come il bambino con le formelle di sabbia o con i mattoncini Lego: combinandole a mio capriccio, secondo accordi inusitati, spiazzanti, non più vincolati a soddisfare le aspettative della comunicazione pratica: scrivendo, mi sentivo il conducente ubriaco di una corriera che non sapevo dove mi avrebbe portato, se all’ingresso del mattatoio comunale, in un laboratorio di profumi o di oreficeria, oppure in fondo a un fosso.

Gli autori significativi.
Alcuni autori, unanimemente assunti a rango di ‘classici’ del Novecento, valgono come pietre miliari per chiunque provi a scartavetrare versi dalla pomice della propria esistenza; poi, all’interno di quelle coordinate comuni, ognuno riconosce delle affinità su base personale: nel mio caso, all’inizio D. H. Lawrence e F. Nietzsche, quindi W. H. Auden, R. Daumal, S. Plath, J. Supervielle, M. Leiris, J. P. Duprey, A. Frenàud, T. Transtromer, C. Milosz (ma ce ne sarebbero…), e non dimenticherei C. Bukowski; anche se il contemporaneo, in poesia, è secondo me iniziato a partire dal ciclo di Poeta a New York di F. Garcia Lorca; il ricambio è continuo, nella tradizione che ci andiamo costruendo: nuove letture entrano, prendendo il posto di altre: ho scoperto di recente R. Alberti, che mi ha colpito per il suo dettato limpido, capace di profondità ed elevatezza e insieme piano, disteso. Credo che il futuro vada in direzione degli autori di lingua spagnola: un nome come quello di Jotamario Arbalàez, in Italia, non dirà niente; certe perle, tuttavia, bisogna scovarle, guardando ad altre latitudini (e in ciò internet oggi può essere di aiuto, perché moltiplica le occasioni di lettura): ma tutta la poesia sudamericana ha risorse e prospettive incommensurabili, così come quella dell’est europeo (A. Blandiana, Z. Pevec, tra i tanti, hanno raggiunto esiti sconcertanti…). Tra gli Italiani, ho un debole per A. M. Ripellino. Ammetto che molti dei miei difetti di stile dipendono dal troppo amore verso i modelli che ho emulato: la frequentazione del Surrealismo, ad esempio, è stata responsabile del debordare inconsulto di certi miei versi giovanili, quando associavo la disciplina formale a una sorta di castrazione metrica; a quel punto, di fronte al rischio di esserne inghiottito, rompo gli autori amati: li rigetto, come dopo un trapianto; e “se la tua mano è occasione di scandalo, tagliala…”. Cos’altro leggo? I testi sacri; gli storici del mito e delle religioni; Hillman e Cioran; Zolla e Citati.

Poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare.
“Do not go gentle into that good night. / Rage, rage against the dying of the light”: gli ultimi due versi di Non andartene docile di D. Thomas, che ripetendosi nel corso del componimento danno allo stesso un andamento quasi liturgico, da litania sacra, a ricordarci che in origine la poesia era una forma di preghiera (e a livello profondo forse lo è ancora); nessuna traduzione, poi, saprebbe restituire a quella invocazione la stessa imperativa dolcezza, la stessa tenerezza accorata che ha nell’Inglese. E se abbiamo bisogno di maestri, il vecchio zio Walt, sapienziale e al contempo fraterno, cosmico e carnale, ultima incarnazione di individuo ‘compiuto’ dal Rinascimento ad oggi, non ci lascerà mai: “Niente è mai davvero perduto, o può mai andare perduto. (…) / Nessuna vita, nessuna forza, nessuna cosa visibile. / L’apparenza non deve ingannare, /né l’abito mutato confonderti il cervello. / Vasti sono il tempo e lo spazio – vasti i campi della Natura.”: per me è al livello dei Veda, di Rumi, o dello Zarathustra di Nietzsche; per un periodo mi misi anche nella scia di Whitman: elevai a pietra angolare della mia poetica la sfida di questi suoi versi: “Può la vostra pagina reggere il confronto / con l’aperta campagna e con il bordo del mare?”, finché gettai la spugna: non la reggevo, quella ampiezza di respiro, quella fede; mi sentivo, di fronte alla Natura come di fronte all’Oriente, un innamorato respinto, che alla fine deve farsene una ragione.

Il momento ideale per dedicarsi alla poesia, alla scrittura.
La mattina presto, quando la città indugia a svegliarsi, a riprendere la sua antica catena, e il movimento dei suoi milioni di corpi è come trattenuto e attende di esplodere, di riversarsi nel fervore cieco e insensato di un’altra giornata; a quell’ora, il silenzio è carico, denso di premonizioni e di epifanie, impone la sua giurisdizione sulle strade e nelle case, la nebbia sembra nascondere ogni cosa, anche se di lì a poco si dissipa, e si vive un momento di solitudine perfetta, tremenda ed esaltante, e anche di esclusione: mentre tutti dormono, e il resto dell’umanità è temporaneamente annullato, ci si sente dei superstiti, gli unici su un mondo disabitato scampati a una qualche maledizione. Mi dà sollievo, alle sei, udire a distanza i primi rumori del traffico, pensare ai bar che riaprono, alla gente che sta uscendo: l’universo è riscattato dall’oscurità, di cui fino a poco prima era in ostaggio, l’infantile paura di una notte che non sarebbe finita mai è scongiurata; al contrario, la domenica e i festivi in genere mi mettono angoscia.

La poesia è…
Credo che la poesia sia l’esito di uno squilibrio con se stessi, con il mondo, con il linguaggio. Di una idiosincrasia insanabile, di uno sbilanciamento sul crinale della normalità. La poesia è un sintomo: avverte che una lebbra sta inghiottendo anche il sole, gli uccelli, i colori del mondo: allora ti prende l’urgenza di mettere un argine a questa voragine, e ti illudi che un verso valga come salvacondotto perché tutto quello che ami passi indenne alla prova dei buchi neri. Ci si arriva quando si è alla frutta, quando si getta per un attimo l’occhio oltre la cortina di cartapesta in cui consumiamo le nostre finzioni, e si scopre il bluff. Quando tutto si rivela reggersi su uno sbaglio, su un equivoco a monte. Quando i conti non tornano, quando ci si volta indietro. Un disgraziato ci prova anche a fare la sua parte, a marciare in riga, a non uscire dal seminato; ma poi si vede passare accanto per la strada certe paia di natiche, e allora ogni sua buona intenzione va a farsi benedire: l’universo esce dai gangheri, la musica delle sfere si rovescia in una pernacchia stonata… In fondo, ogni nostro gesto ripete il triplice abbraccio ad Euridice, ad un’ombra che sfugge, che non ha consistenza; il linguaggio è appunto il terreno sul quale quelle ombre ci danno appuntamento, per confidarci a bassa voce preziose informazioni sul nostro conto, che però non afferriamo bene, o perché distratti o per intrinseca impenetrabilità del codice in cui ci sono trasmesse. E al cospetto delle ombre, la poesia è anche un esorcismo. Se uno dorme otto ore per notte, non vedo perché dovrebbe avere bisogno di poesia: se non trema davanti allo specchio, se ha le idee chiare su come passare il weekend, se svolge con disinvoltura quella serie di operazioni in cui la maggior parte della gente definisce il senso della parola ‘vivere’. Sarebbe masochistico andare a incrinare una superficie ferma, trasparente: se uno può evitare, tanto meglio; la poesia pesca fra le anime perse, ma non fa presa sui già vaccinati, sui cuori coriacei, sugli uomini-iguana. Eppure, sentirsi a disagio di fronte all’esistenza è al contempo indice di paradossale salute: ci rassicura che ce ne vuole ancora prima di impazzire definitivamente.

Poesia e compiutezza.
Quando finisco di scrivere, avverto stanchezza e svuotamento, come dopo un orgasmo. È come un dente che cessa di sbattere nel suo alveolo mascellare infiammato. Ogni poesia non terminata è una donna ancora da conquistare; poi, alla fame succede la tristezza, come in ogni dongiovannismo. Ma provo anche un sollievo, anche se temporaneo: gli invasori sono stati per un po’ respinti, quantunque di certo presto torneranno. Ma il sangue, in quei momenti, rallenta, il cielo non pesa più sulla nuca, i pensieri levitano, sgravati; una poesia è pronta quando dalla pagina si alza una fumata bianca: habemus papam, una implorazione a lungo covata è stata esaudita, una risposta da tanto tempo attesa è arrivata; a quel punto, ogni parola si scopre definitiva e insostituibile, appare come una strada obbligata, da cui non è ammesso ritorno. In genere, appena conclusi, i versi che ho partorito mi inducono un conato di repulsione, un disconoscimento: anche tra i rettili, la madre abbandona i suoi piccoli appena le uova si sono schiuse; quando tale sensazione si attenua o si fa tollerabile (non scompare mai del tutto), allora mi fermo, smetto di accanirmi nella revisione, cioè nel tentativo di estrarre il ferito incastrato tra le lamiere, che può essere tratto in salvo solo mercé un soccorso sovrannaturale, un miracolo. Me ne accorgo, per una empatia quasi fisiologica con quelle parole, che è inutile infierire; ed è l’istinto a dirmi quando, molto più del labor: devo riconoscere una coerenza interna al testo, tale da aver raggiunto la massima esaustività con la massima economia di parole possibile; ci si gioca, in ogni sillaba, qualcosa di simile alla salvezza dell’anima per i credenti: la posta è altissima, è un equilibrio che non prevede ripensamenti o seconde possibilità: sbagli il momento in cui andare a capo, o la posizione di un aggettivo, e sei spacciato, l’universo intero andrebbe in pezzi all’istante.

Poesia e purezza delle parola.
La banalità si incrosta anche sui sensi, sui pensieri, non solo sul linguaggio. La sensazione che tutto sia già stato provato e abbia perso sapore; e anche il coito, ai giorni nostri, si è ridotto a una meccanica disumanizzata: ogni esperienza risente di questa epidemia, di questo svuotamento semantico del logos e del mondo (il rischio è soprattutto per i più giovani). Le parole, a loro volta, si usurano, degradate dalla torrenziale oratoria di talk-show e tribune politiche: ce ne è oggi uno spreco che è immorale; la loro filettatura si spana, si fanno mute, ma recuperano purezza quando, giungendo alla pagina da oscure profondità, ci rivelano chi siamo, ci dicono qualcosa sulla nostra essenza che ignoravamo e di cui in nessun altro modo saremmo divenuti coscienti. Io però ho un concetto di ‘purezza’ che ha poco di ungarettiano: parlerei semmai di autenticità della parola che non teme di profanarsi, di affondare nelle viscere pulsanti, di impregnarsi degli umori del vissuto, invece di preservare una propria verginità olimpica e artefatta; credo, d’altronde, che la sola via per arrivare al mare sia attraversando le cloache.

L’incarico della poesia.
A livello intimo, sì che ce l’ha: mi sento in dovere, di fronte a me stesso, di dare voce a quanto in me è muto, buio, inarticolato, preistorico, voglie e terrori, nausee e rabbie, e a tutto ciò che dal basso preme per erompere, erba o magma che sia, carico di una pressione enorme che deve sfogarsi, per cui vivo la poesia come una investitura, una unzione sacra; ma a livello sociale, no di certo: perché opprimerla con dei compiti, delle mansioni da adempiere, con una idea di ‘pubblico’? Non ne ha più, di simili fardelli, e da un secolo e mezzo ormai; ha perso ogni ascolto di fronte al mondo: anacronistico inquadrarla in qualunque funzione etica, visto che, nell’era delle grandi metropoli, nessun senso di comunità è più postulabile. È un bene superfluo, ma in questa gratuità sta anche la sua unica possibilità di salvezza: gli aquiloni non volano, se bagnati o coperti di polvere. Rileggi quello che hai appena scritto; e intanto, in qualche angolo di Cassiopea, una supernova sta bruciando senza che i nostri radiotelescopi ne sappiano nulla; i diserbanti sterminano milioni di formiche nei terreni destinati ad uso agricolo di tutto il mondo; qualcuno tira le cuoia e qualcun altro si adopera – con sommo giubilo – a perpetrare il proprio genoma: scrivere è irrilevante, puro, innocuo onanismo. Credo che della poesia oggi si chiacchieri anche troppo: la si strumentalizza a un dilagante narcisismo collettivo, la si asservisce ai fini di un generalizzato priapismo dell’ego, di un pervasivo individualismo di massa, effetto della maria-defilippizzazione dominante. Ma una poesia che manchi di reticenza è una contraddizione in termini: la Musa è una ragazza pudica, e proprio quando sembra negarsi ci fa capire che ci sta a concedersi.

Un testo ‘rifugio’.
L’assurdo ha innumerevoli bocche con cui ci mastica e poi ci divora, ma i poeti ci hanno lasciato parole a cui aggrapparci, e nelle quali trovare una sorta di immunità. Cerco, nei poeti che leggo, ossigeno: uno scampo, un anestetico, una assoluzione. Figuriamoci se in Italia uno come Kenneth Patchen si saprà mai chi è stato: “Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati. / Sonnambuli in una terra buia e terribile, / dove la solitudine è un coltello sporco alle nostre gole. / Stelle fredde ci guardano, amico. / Stelle fredde, e le puttane.” Il mondo è ingiusto e spietato perché uno come Patchen, il massimo poeta d’amore in lingua inglese del ‘900, lo ha lasciato in pasto alla tenebra; il suo oblio, in vita e anche dopo, smentisce ogni fiducia nell’uomo, condanna la storia, prova che tutte le teodicee mentono e mette in serio dubbio la fede in un Dio di amore. Ma per fortuna c’è S. Esenin, il testamento intimo e struggente che ha affidato a L’uomo nero: “Fra tempeste e bufere, / nel gelo della vita quotidiana, / nelle perdite gravi e nella tristezza, / mostrarsi sempre sorridenti e semplici / è l’arte suprema del mondo.”

Tre poesie dal “Il talento dell’equilibrista”
di Guglielmo Aprile
(Giuliano Ladolfi Editore)

I vendemmiatori di polvere

1

Perdono un pezzo dopo l’altro
le giunture dei vecchi ponti,
l’appartamento non coincide
con la sua pianta in scala.

La compagnia gitana degli acrobati
si appresta a sbaraccare
per mancanza di pubblico;
i vendemmiatori di polvere
non hanno un attimo di pausa,
sommersi dagli arretrati.

2

Non fu per me che Mitra sgozzò le albe;

fra dieci anni, come sarò ridotto
quando tutte le lamette saranno inutilizzabili,
dopo la data di scadenza del bancomat:
ghiaccio sulla nuca,
avrò bisogno di un pigiama più largo,
la città enorme e vuota come un mare
nei pomeriggi di metà agosto.

Il giorno dopo

Il romanico della neve
dona una certa grazia all’inverno
e alle sue geometrie rachitiche:

spegne il morso della lebbra
sugli zigomi delle strade,
smussa i canini agli alberi;

poi la mammella del cielo
si sgonfia: il fango svela
sotto quel soffice marmo il suo inganno,

è una bugia che dura un giorno
il bianco.

Scorie

1

Il sarcasmo della pioggia
scortica i volti e denuda le costole
dietro il piumaggio soffice,
le statue giocano a un due tre stella
mentre la morte fa la conta, oppure
con smorfie e boccacce distolgono
dall’asfalto lo sguardo dei passanti;

un quoziente scarno, insoddisfacente
si ottiene dal rapporto
fra il mondo e la mia pelle,

non restano che scorie
in un modo o nell’altro da smaltire
al termine di ogni metabolismo.

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