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Un racconto greco.

Molto tempo bisogna perdere per approssimarsi veramente alle cose. Incamminarsi dentro lo schermo d’aria, fino in fondo all’ingresso che il nostro orecchio e il nostro occhio scavano come un pertugio nel visibile.
Da lì il mondo apparirà in chiaro o, finalmente, nel cristallo del suo inevitabile divenire.
Questa strada, questo passo azzardato, questo viaggio penetrante saranno gli ordini di una passione. E la passione cos’è, se non il dettato di un compito da eseguire, fatalmente?
Nella storia della poesia greca del Novecento ciò è restato impresso, come la resistenza della filigrana nell’occhio cavo di una balaustra sul mare.
Cosa rende i poeti greci amanti ed esperti di un’unica famiglia, la sfinge mediterranea che solca una geografia di isole e penisole, dove l’unica fuga è l’idea stessa, retaggio solare, della fuga? Forse la risposta è nei giardini di Kostas Kariotakis (1896-1928), dove ci addentriamo con la bocca storta dalla rassegnazione:

[…]

Vanno, come un corteo funebre, nel filare
gli alti alberi del pepe, trascinando i verdi capelli.
Nella disperazione entrambe le latanie hanno alzato
le braccia. Ed è il nostro giardino giardino di malinconia.

(Trad. Filippomaria Pontani)

O quando, nella bellissima Fama Postuma, scriveva: Forse, dietro di noi i versi resteranno,/dieci versi soltanto resteranno, un po’ come/ i piccioni che i naufraghi mandano alla ventura,/e recano il messaggio quando non è più tempo.
Si riconosce quell’identità chiaroscura che nella poesia greca contemporanea prende avvio da Konstantinos P. Kavafis (1863-1933) e che diviene successivamente una forte componente, quasi marchio, di una incessante ricerca in bilico tra l’estasi sensuale nel flusso degli eventi della vita e l’incombenza umbratile della malinconia. Su tutto, una commozione trasparente, un ventaglio di compassione che dilata il caldo e il freddo dei giorni. Gli archetipi, misurati passo dopo passo, sul resto, la cenere, il perduto. Entriamo in Villa Asphodela di Nikitas Randos (1907-1989), uno degli esponenti maggiori del surrealismo greco:

Vicino al mare s’ergerà la casa che ospiterà i miei sogni
e davanti alla casa – casa piccola e brutta, tutta finestre e porte –
un giardino enorme senza molti alberi, senza aiuole,
e come fiori, solo di marzo, asfòdeli.
[…]

A un’estremità del giardino, più ripida, più secca, più pericolosa al passo
ignaro,
nei vasi pianterò capelli d’un colore
d’un ritmo che ricordi le chiome delle poche teste che ho veramente
amato.
Quotidianamente li innaffierò d’acqua marina che porterò nel cavo delle mani.
[…]

Questo rito dei miei perduti amori nessuno lo vedrà
le foglie dei cactus alte e larghe celeranno ogni cosa
l’onda scaccerà con gli urli dei gabbiani ogni sembianza umana
e i corpi secchi degli asfòdeli col grido acuto della morte
quando piedi d’uomo li spezzano – nella mia casa avranno la funzione
del cane fedele.
Vivrò così indisturbato finché mi nutrirà la fantasia di storie immobili
nel tempo.
[…]

E con le unghie sulle stesse superfici scriverò epistole a un unico indirizzo: la vita delle foglie.
[…]

Così potrò sempre, tornando sfinito a casa mia,
addobbarla tutta, da cima a fondo – dopo aver chiuso ermeticamente
porte e finestre
con l’aroma degli asfòdeli.

(Trad. Filippomaria Pontani)

Penetrazione delle cose: eccesso di azione, enfasi in caduta, libertà sentimentale. I poeti greci somigliano al paesaggio della loro patria: tanto meraviglioso quanto massiccio per eccesso di acque, germogli di creste, pendii brulli, deserte contrade.
Nei loro versi la magnificenza di esperienze interpretate all’ombra di un destino spezzato che se da una parte sostiene il peso della tradizione dall’altra cerca l’inevitabilità del rinnovamento.
In una bellissima poesia, che presenteremo solo parzialmente, è Ghiorgos Seferis (1900-1971) a suggerire questo contrastivo mutamento, questa distonia che slitta su due piani: l’incursione dell’apparentemente non poetico migra nella forma di una domanda inattesa.

L’aria d’una giornata che vivemmo in un paese straniero
dieci anni fa
il clima d’un attimo antichissimo che batté l’ala e sparve
come un angelus Domini
la voce d’una donna dimenticata con tanta saggezza
e tanta pena:
una fine implacabile, impietrito tramonto d’un settembre.

Case nuove cliniche polverose finestre esantematiche
fabbriche di bare…
Ci ha pensato nessuno a quanto soffre un farmacista
sensibile di guardia nella notte?
[…]

(Trad. Filippomaria Pontani)

Vive in Seferis l’impietrirsi dell’occhio meridiano, che si sofferma a guardare le cose, il mondo, le esperienze umane da un otre rigonfia di tutto ciò che fuoriesce senza, in verità, una stilla. Una ragione di tragico? Ce lo conferma quel suo verso impeccabile di dolore: Dovunque viaggio la Grecia m’accora. Una Grecia che viaggia, viaggia sempre.
Il tema del viaggio, inteso come diffuso sogno di una meta perenne, riguarda tutti i poeti del Mediterraneo. Un viaggio circoscritto alle falde della memoria, dove i motivi ricorrenti del ricordo e, insieme, della rovina del tempo avvengono all’unisono con il moto ondoso del mare. È il mare che governa il tempo: il suo levarsi e il suo decrescere scandiscono i ritmi di una fuga verso l’orizzontale piana azzurra. Ciò che conta è il desiderio di ri-crescere all’interno della radice estetica di un cosmo marino, dove il tema dell’incontro con l’altro si fa partecipazione onnisciente, sintonia plurale che supera di netto la sola condizione umana e contagia ogni nuovo approdo alla conoscenza.
Non a caso, a molti poeti del Mediterraneo va assegnato l’onore di abitare una soglia in equilibrio perenne tra la lingua parlante e la lingua costiera che spartisce le terre: come se in questo paio si evolvesse l’inquietudine mai celata che caratterizza versi da sempre vocati all’espressione di un sentimento irrisolto, indefinito, imminente ed immanente, ostinato nella ricerca di quel dolore originario che investe la proverbiale assolata natura del Sud.
Perché c’è una finestra aperta su questo binomio: Sud-dolore. E chi ha provato ad affacciarvisi con leale amore, sa di cosa stiamo scrivendo.
Non è il dolore della società contemporanea che ha spogliato il santuario delle civiltà antiche di ogni ereditarietà utile a costruire un rinnovato umanesimo; non è nemmeno il dolore della lamentazione, della supplica, della fede religiosa.
È il dolore dell’immaginazione. È la punta acre con cui sforziamo il nostro limite a incidere definitivamente il nome nelle relazioni che talvolta intuiamo appartenere alle cose.
Odisseas Elitis (1911-1996), ne Il piccolo marinaio, scriveva:

Ho abitato una terra che sorgeva dall’altra, la reale, come il sogno dai fatti della vita. L’ho chiamata anch’essa Grecia e l’ho incisa sulla carta per vederla. Sembrava così piccola, così inafferrabile.
Man mano che il tempo passava la mettevo alla prova: con qualche improvviso terremoto, con antiche tempeste naturali. Cambiavo posto alle cose per togliere loro ogni valore. Studiavo l’Insonne e l’Eremita per poter creare colline castane, piccoli monasteri, fonti. Ho fatto persino un frutteto pieno di agrumi con la fragranza di Eraclito e di Archiloco. Ma il profumo era tale che ho avuto paura. E piano piano ho cominciato a legare parole come fossero diamanti e a nascondere il paese che amavo. Perché nessuno ne vedesse la bellezza. O sospettasse che forse non esiste.

(Trad. Paola Maria Minucci)

È a Elitis che va riconosciuto il dono di sovrastare sul potere magnifico della luce greca. Poeta dei paesi remoti, autore di vivissima grazia, eccezionale rivelatore di tradizioni che non emettono odori stantii, anzi efflorescenze durature, è forse colui che più ha fatto della Grecia una geografia di istanti, di bagliori, di passeggiate nel tempo evocato, richiamato al succo delle origini, un verso oscillante nel suono dell’immaginario, dove le lancette non assecondano i fatti, ma le apparizioni.
Di visioni narra pure Ghiannis Ritsos (1909-1990), sebbene i suoi versi siano esposti all’ombra di una biografia drammatica e si identifichino con un mondo accatastato di oggetti, stanze, echi, inviti all’ascolto di un silenzio tombale e specchiato, che guarda nel lutto delle cose la chiarezza della poesia, l’innocenza del suo non-tempo, il riguardo estremo ch’essa conserva per ciò che, perdendosi, riappare nella forma di un istante in un giorno qualunque.

Toccò il vestito vuoto, appeso al muro da anni.
A poco a poco il vestito prese a gonfiarsi, si riempì – si distin-
guevano già
i due piccoli cerchi dei ginocchi, il seno, i glutei,
quando s’udì nel corridoio in fondo lo starnuto del domestico
che credeva da tempo addormentato. Un fiato sconosciuto
oscurò lo specchio. Il vestito era caduto
completamente vuoto sul pavimento, accanto ai fiori di carta.

(Trad. Nicola Crocetti)

È un dolore infettivo, che nel poeta tende a conservarsi come la voce scordata di uno strumento musicale lasciato alla polvere. È un dolore che si palesa ovunque e non arretra, anzi rinviene nelle sorti stilistiche dei poeti successivi, fino a identificare una traccia genealogica comune nella storia poetica del Novecento greco.
Ghiorghios Thèmelis, Nikos Gatsos, Takis Varvitsiotis, Zoí Karelli, Tasos Livaditis: in molti di loro si riconosce la stessa espressione di sofferenza esistenziale, spesso affiliata a una celebrazione del paesaggio estivo. E tra l’estate e il dolore nasce un’alleanza di compassione che si modella sugli eventi umani e li plasma dentro a una cortina di parole che stanno nella terra, nell’aria salmastra, nel clima.
I poeti greci citano di frequente l’estate, che diventa una stagione di sentimenti inquieti dove appaiono ora gli spettri del mito reviviscente ora le forme abbaglianti di propizie promesse sul futuro. È l’estate interiore mediterranea, tanto accecante da sforzare le membra, annichilire la vista, oscurare i sogni; è la campagna ammorbata dal fuoco lento del sole che penetra negli antri delle montagne e degli ulivi, giunge fino alla costa, screzia di ondine le acque, ritorna nella patria assordata dal suono delle cicale, sfama quell’allegria luttuosa che connota di chiari e di scuri le strade, i muretti, i conventi, le case, i terrazzi. È l’estate di Kikí Dimulà (1931):

Quest’estate
non se l’aspettava nessuno:
è arrivata come qualcuno che credevamo morto.
E ha portato anche un imbarazzo,
una tensione dimenticata
e un’insonnia
per cose che pensavamo anch’esse
morte.
[…]

(Trad. di Filippomaria Pontani)

Non una stagione, ma un punto cardinale del cuore.
L’insonnia, quella veglia struggente che mira all’alto, nei poeti greci è invito al dialogo mai concluso con un sentimento di fuga perenne che li cicatrizza in una specie di nomade immobilità.
In questa forma di convalescenza meridiana, i luoghi suggestionano la vita e viceversa. I poeti greci sono i luoghi che descrivono, il loro essere è immerso nell’istante della visione. Tra le loro parole e lo spazio da cui esse si originano non esiste divisione. Le parole nascono da una nominazione antecedente che risiede nella potenza rivelatoria del paesaggio.
Una poesia che non è scissa da ciò che più le pertiene: l’ambiente da cui è stata generata, la voce del popolo che l’ha trasmessa, scavalcando gli anni come gradini ascesi a un finale ricongiungimento con la Storia.
Persino nei testi “impegnati”, testimonianza di un contatto diretto con i fatti più salienti del secondo Novecento, vive la fedeltà a un richiamo della terra che è connaturato allo spirito stesso della letteratura poetica greca: l’espressione di un canto che è voce non interrotta di un rapporto quasi animistico con le cose, in conversazione con la natura più radicale delle faccende umane, una sorta di sapienza etica ed estetica che rinfocola gli intenti di chi scrive. In questo caso, Titos Patrikios (1928):

M’inzuppo insieme ai morti del cimitero militare.
Dalle mie viscere passano le ramificazioni dell’acqua
fanno di me una vecchia giubba bucherellata dai proiettili
che si slava lentamente sulle ossa di un soldato.

Ed era una pioggia strana che i campi non s’aspettano.

M’inzuppo nelle nostre terre selvagge con i miei compagni morti.
Nelle strade dell’acqua nelle rocce sotterranee
cerco le nostre radici perdute e un cielo amaro
che quelli non vedranno mai, pioggia o non pioggia.

Ed era una pioggia comune che cade in certi mesi.

(Trad. di Filippomaria Pontani)

Uno dei massimi poeti greci viventi persegue l’intento di tutelare la memoria storica non ricorrendo ai soliti toni alterati dalla necessità di promuovere a tutti i costi un pensiero politico, ma raccogliendo dai versi la priorità di un messaggio anzitutto umano.
In questa ricerca dell’uomo, si addensano la purezza, la chiarezza, l’onestà di tanta poesia greca del Novecento; nella sua eccezionalità senza filtri, senza sovrastrutture, senza fingimenti, nasce una possibilità di crescita e di progresso dentro la parola che è prima di tutto celebrazione dell’immagine.
Se il Mediterraneo, dentro le sue silenti piane, fuori dagli schemi del vivere comune, in dialogo con l’esubero vigoroso delle acque, in accordo con i caratteri di una privilegiata posizione geografica, riesce oggi a resistere e ad essere una meta simbolica per sognatori, lo è in virtù anche della straordinaria produzione lirica greca. Una mole di lavoro ben più complessa della sintesi qui accennata e che diffonde – se vissuta, attraversata, studiata – la certezza incoraggiante di avere tra le mani un patrimonio di sapienza ancora non intaccato dal cinismo imperante, ancora tanto innamorato della vita.

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