Annotazioni semiserie di un recensore

 

cop spampinato

Solo per questa volta, miei affezionati lettori de l’EstroVerso, mi sia concesso di cominciare partendo dalla fine, quindi, dalla firma con cui normalmente si chiude ogni articolo degno di questo nome (ecco, la metto un po’ più discosta perché si noti ancor meno). Dunque, dicevamo: D. Spampinato. Penserete naturalmente che si tratti di una bizzarria, di una mostruosità, di una licenza inammissibile per un periodico serioso e tanto poco originale come l’EstroVerso. E come darvi torto, dopotutto? I lettori, voi me lo insegnate, sono un po’ come i clienti di un esercizio commerciale. Hanno ragione anche quando pretendono di sporcare la toilette di un caffè senza usare la cortesia, una volta usciti, di sedersi a consumare un cappuccino. Ma, tornando ai nostri casi e mettendo da parte l’ironia, vi spiegherò il motivo di questo insolito stravolgimento. In chiusura mi firmerò con un nome diverso soltanto perché l’autore che sto per presentarvi è niente poco di meno che mio cugino. E lo capite, non è semplice scrivere una recensione quando l’autore e il critico portano lo stesso patronimico. Sta in agguato, dietro l’angolo, l’accusa di parzialità; e poi si rischia di sbattere il muso contro quella favola che molti si ostinano a chiamare conflitto d’interesse. Di queste cose si sente parlare regolarmente, oltre che da noi, soltanto nel Cavalierato di Malalingua. Io personalmente non sono disposto a credere a una sola parola di quello che si sente in giro, anche quando le ho viste (quelle parole) coi miei stessi occhi e in più di un’occasione. Ora appunto, come si fa a vedere le parole? Lo capite da voi che non si può. È un controsenso, anche se in retorica qualcuno vi parlerà di sinestesia. Bene, se persino io riesco a convincermi che le carte sono in regola, non vedo perché voi vogliate comportarvi come certi pubblici ufficiali che, per prendere troppo seriamente il loro lavoro, finiscono per vedere quello che non c’è.

Il mio silenzio (Inkwell, 2013) è opera prima di Giuseppe Spampinato. Incuriosisce in primo luogo la scelta del genere. Alcuni – che s’intendono di letteratura come io ho familiarità con l’aramaico – sarebbero pronti a inumidirsi le dita di saliva e a bollare la copertina di questo volume con la comoda etichetta del fantasy. Ammettendo ciò, si rischia di travisare. Il genere in questione presuppone sì un mondo “altro” con leggi proprie, ma qui corre un filo saldo come una catena tra il mondo di fantasia dell’autore e la quotidianità di cui si nutre. Questo filo/filtro è senz’altro allegorico. Le figure, l’ambiente rimandano a una realtà “sotterranea”, non sempre di facile decodificazione. Tutto questo deve essere di avviso ai lettori: nella storia di Ics (è un nome di fantasia che ho appena inventato – in realtà non ci è dato sapere il nome del protagonista – quindi in lui potresti rivederti persino tu che leggi… a meno che tu stesso preferisca non riconoscerti, ma quello è un problema tra te e l’autore: non è un caso che mi riguarda in alcun caso), dicevo, nelle peregrinazioni del protagonista dalle terre desolate di Malkuth fino alla luminosa cattedrale di Keter, guidato dalla presenza invisibile di Cahetel, si nasconde un lungo cammino di incontri e di pensieri. Non ci sono, ve lo anticipo, combattimenti tra vampiri sadici, non c’è traccia di raggi laser e il peggio che vi si può incontrare è un serpente che può farvi molto male o quasi tenerezza, a seconda dell’umore con cui lo si voglia affrontare. Ci troviamo di fronte a un itinerario di ricerca caricato di allusioni simboliche. La base da cui partire per una lettura dell’opera è obbligatoriamente questa.

Senza anticiparvi nient’altro della trama, ne sosteniamo il messaggio, l’anelito alla speranza, la grandiosa aspirazione all’amore e al ritrovamento di sé. Primo Levi parlava, non a caso, della necessità di rifiutare le verità eclatanti per accettare quelle più modeste, ma verificabili. Anche Giuseppe Spampinato punta tutto sulla concretezza delle verità discrete. Le verità più grandi – è la speranza dell’autore – sono quelle che in fondo conosciamo nel nostro cuore. Non ci sarà mai nulla di più vero di un padre e di una madre che amano il proprio figlio. Certe verità sono immutabili, misurabili nel quotidiano, costanti. L’autore nel suo viaggio le cerca di continuo. Il tentativo gli rende onore. Ne consigliamo quindi la lettura, rinnovando l’indispensabile premessa. Il libro richiede tempo e dedizione per essere assimilato, per essere colto nella sua complessa simbologia.

È una lettura che tende all’introspezione, all’esplorazione di sé; ha un ritmo narrativo disteso, un linguaggio familiarmente colloquiale, con una diffusa tendenza al raccontato. Chiunque preferisca fiumi di sangue, eviscerazioni varie, crani fracassati, farebbe meglio a spolverarne la copertina solo con gli occhi e sempre da un’apprezzabile distanza. Il libro è invece consigliabile a chi vuole rileggere in chiave moderna il “mito” della scalata al cielo con la forza del coraggio e della volontà: il tentativo di un uomo che sa elevarsi dalla disperazione alla speranza di una possibile luce.

Concludendo (e me ne scuso per essermene fin qui dimenticato), devo consigliarvi l’acquisto anche per un’altra ragione. Mio cugino (che non è più l’autore del libro di cui vi ho parlato finora – come, del resto, non è più mio il nome con cui mi sono presentato all’inizio), mi ha promesso che, se questa vetrina vi avesse invogliato ad acquistare la sua opera, lui poi mi avrebbe offerto una cena a base di pesce. Se non prendete a cuore la sorte dell’autore, dovreste perlomeno pensare a me che vi sono tanto caro. La crisi mi costringe da diverse settimane a mangiare quotidianamente un misero piatto di lenticchie. Ma sarà poi vero che portano così tanti quattrini come dicono? È la solita storia, dopotutto. Si sente spesso in giro che le lenticchie portino tanta fortuna. Più ne mangi e più diventi ricco. E sarà pure che le cose vadano così in qualche caso. Per gli onesti disgraziatamente questo miracolo non si rinnova mai. Per questo non bisogna prestare troppa fede a quello che si ripete in giro.

Davide ‘Roversi’

 

 

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