L’ultimo libro di Giuseppe Savoca, già professore emerito di letteratura italiana moderna e contemporanea dell’ateneo di Catania, indaga la linea onirica di una certa letteratura italiana otto-novecentesca “fatta in Sicilia” che trova in Pirandello, Brancati e (soprattutto) Sciascia i suoi alfieri più significativi. Ad unire questi tre autori, oltre alla tematica del sogno e al più evidente fattore geografico, concorrono anche legami di consanguineità letteraria: non solo di tipo “paterno”, come nel caso riconosciuto di Pirandello per Sciascia, ma anche nel senso di un affratellamento ideale che avvicina, nelle infinte vie della letteratura, Brancati allo scrittore di Racalmuto; con quest’ultimo che si pone quindi come vertice di una triade palesemente sbilanciata in suo favore (dei quattordici capitoli complessivi in cui è articolato il saggio nove infatti sono quelli dedicati a Sciascia, contro i tre per Brancati e gli appena due per Pirandello). Ciononostante, una declinazione eterogenea del motivo onirico è garantita sia dall’arco temporale che copre tutto il Novecento, sia dalla fisionomia specifica dei tre scrittori che portano avanti un’idea di letteratura (e del sogno) la cui genesi è da rintracciare nelle diverse reazioni personali alle contraddizioni della realtà storica in cui operano.
Se Pirandello piò essere considerato il capostipite dei Sogni fatti in Sicilia (così il titolo del volume di Savoca edito da Olschki) è in virtù del fatto che dall’Umorismo (1908) in poi l’opera dello scrittore girgentino manifesta i sintomi di «una logica interna al processo di contestazione e dissoluzione del reale» (p. 4) che, come è noto, germinerà nella poetica pirandelliana di una verità dinamica, “in relazione” anche al motivo onirico. Il limbo tra sogno e realtà è infatti il tratto più riconoscibile di quella che Savoca individua come la «linea propriamente pirandelliana» (p. 20) che discende fino alla rappresentazione sospesa e sfumata della Natàca (Catania) di Brancati (Gli anni perduti), il quale introduce successivamente la variante della «realtà nel sogno», come nel Don Giovanni in Sicilia, per giungere infine a ribaltare le inquietudini storiche del ventennio fascista ne Il Bell’Antonio e nell’incompiuto Paolo il caldo. Se la storia è un brutto sogno, la realtà e la verità dove e come si collocano?
Con questo interrogativo entra quindi nel campo dell’indagine savochiana il sogno siciliano di Sciascia che, da parte sua, contribuisce ad arricchire ulteriormente la rappresentazione della fenomenologia onirica con il tema del «sogno dentro un sogno» (p. 73), estraneo tanto a Pirandello quanto a Brancati ma ben presente nelle letterature americana (Poe) e ispano-americana (Calderon, Borges) assiduamente frequentate dall’autore del Giorno della civetta. E proprio con questo romanzo – che, si ricordi, è stato tra i primi (se non il primo) a inquadrare il fenomeno mafioso in una prospettiva etnoantropologica – la dicotomia sogno-realtà si incontra per la prima volta con le dinamiche del potere e della falsificazione della verità. Mentre nel successivo Consiglio d’Egitto (1963), e cioè con l’impostura ordita dall’abate Vella di cui farà le spese il protagonista positivo Di Blasi, il discorso di Sciascia si spinge in un territorio dove la storia – in quanto luogo umano in cui verum e factum convertuntur, secondo il celebre postulato vichiano – è apertamente negata («la storia non esiste») e, con essa, anche quell’ultima frontiera della ragione in grado di distinguere tra sonno e veglia, e quindi di garantire riparo e protezione da mostruosità come possono essere quelle partorite (vomitate?) dal genio visionario di Goya.
L’irruzione di una cifra visionaria quale estensione e, per certi versi, contraddittorio superamento di un’articolazione banalmente onirica è presente infatti in Todo modo, giallo metafisico in cui la verità si distorce attraverso le lenti diaboliche e spinoziane di don Gaetano, e forse ancora di più nell’inchiesta su La scomparsa di Majorana laddove il fisico siciliano (e Sciascia stesso) arriva a “vedere” lo spavento «in una manciata di atomi» che può sovvertire quell’ordine naturale delle cose cantato anticamente da Lucrezio.
Un capitolo a parte del saggio di Savoca è ovviamente dedicato al Candido, il cui sottotitolo («Un sogno fatto in Sicilia») funge da evidente stella polare per l’esplorazione critica dello studioso catanese che ravvisa in quest’opera «un sogno fatto in Sicilia dal personaggio e dal suo autore, il quale ha dichiarato di sognare di tornare in Sicilia quando ne era lontano» (p. 131). Il desiderio che nasce dalla lontananza si configura pertanto come una riconnessione sentimentale tra Sciascia e quel cuore della Sicilia a cui egli peraltro aveva dedicato la sua unica prova in versi del 1952 (La Sicilia, il suo cuore), prima di battere altri sentieri narrativi che si arresteranno di fronte alla possibilità della morte (Il cavaliere e la morte) quale soglia invalicabile davanti alla quale si dissolvono tutte le dicotomie (sogno/realtà, verità/menzogna) che avevano alimentato le fantasie e le ossessioni di uno scrittore che «visse e si contraddisse». E forse, suggerisce il libro di Savoca, anche nel nome occulto di quel Freud teorico del principio di non contraddizione, nonché spudorato rifacitore novecentesco di quell’arte antica e fascinosa conosciuta con il nome di onirocritica.