I: Questione
Carissimo autore,
ricevo la tua magistrale, raffinata, ridondante sceneggiatura della tragicomica e incompiuta cancellazione del soggetto (tema e fondamento) della scrittura e pertanto io, lettore implicito, mi sento in obbligo di rispondere e con ciò di esplicitarmi, di venire allo scoperto, a mio rischio e pericolo.
Sceneggiatura, dicevo, perché tale è infatti questo poema, cui io mi appresto a rispondere così come posso, dal luogo dove mi trovo relegato, fuori campo, come la terza persona grammaticale di Bénveniste, come il terzo escluso di ogni logica formale o dialettica, nonché del dialogo socratico che entrambe le fonda. A tutto ciò tu fai opportunamente il verso, ossia metti in versi un intreccio che invece dovrebbe procedere da premesse a conclusioni, da un nodo a uno scioglimento, e per contro sempre si avvolge su stesso, mordendosi velenosamente la coda. Girando in tondo, anzi a spirale logaritmica, tra “la prima stazione e la prima stazione, sempre la/ stessa e/ sempre diversa/”, (13, ecc.) mettendo in scena appunto il surplus semiotico come contraltare della deficienza esistenziale, nonché l’erranza sur place cui è condannato il soggetto moderno, nomade e sfasato, da diversi secoli e forse anche fin dalla sua cacciata dall’Eden, dove aveva avuto l’onore e l’onere di dare il nome alle cose: tremendo fardello lasciatoci in eredità dal (d)io della Sacra Scrittura, per cui la parola adamitica e adamantina non era che una semplice traccia, dei-scienza o supplemento di un atto di nominazione già sempre da Lui compiuto bene o male in sei giorni più uno di riposo, quando si godette in terza persona la presentazione del Creato, senza alcun presupposto o pregiudizio, come fine ultimo quella époché che si è svolta giorno per giorno di fronte al suo sguardo ben disposto che “vide che era cosa buona” (bontà sua) …“E fu sera e fu mattina” e così via. Perciò l’atto di parola a ben vedere, nella nostra beneamata religione del Libro, soffre già dall’inizio di un ritardo rispetto alla cosa stessa a cui l’auspicato ritorno rimane inevitabilmente precluso. Derrida, anche lui con colpevole ritardo, non fa dunque altro che attingere alla Sapienza divina. Tutto ciò tu lo avevi registrato benissimo già nella tua squisita plaquette Phénoménologie” (2015), un vero e proprio de profundis, in diciannove paginette non numerate, all’ideale filosofico e alla chimera poetica della presenza evocata dalla parola. Perciò quella miniatura può ben essere considerata come il prologo di questo mostruoso poema barocco, che mi ricorda tanto le facciate di quei palazzi siciliani al cui interno si svolgono i più contorti intrighi e crimini efferati affinché “tutto cambi perché nulla cambi”, nella frenesia e nei giochi di potere della storia. Di ciò disquisisce il tuo squisitamente metaletterario, post-moderno e attualissimo pastiche, perché sia chiaro che dal postmoderno degli anni Ottanta del Novecento, non siamo ancora mai usciti in una dimensione nuova quale che sia, o quantomeno non ce ne siamo accorti e continuiamo a dibattere sulla differenza tra prosa e verso, i confini tra i generi letterari, l’ineffabile essenza della scrittura e la mallarmeiana funzione salvifica del Libro, anche se questi sono già da almeno un trentennio irrimediabilmente defunti e rimediati, sicché tu stesso per primo dichiari di stendere a mano i tuoi poemi, poi di trasferirli sul computer e solo in quest’ultima fase di apportarvi modifiche, ritagli e spostamenti di lessie, nella dispositio del testo, nel montaggio del tuo mondo teatro o se preferisci del tuo film della vita. Così faccio io, così fan tutte e tutti, squisitamente, elegantemente, per carità, in questo orribile ed efferato pasticcio in cui ci siamo cacciati: nella fantasmatica sceneggiatura di un dramma impresentabile, perché l’intreccio è precocemente imploso nel paratesto, nella cornice, nel circolo vizioso dalla prima stazione alla prima stazione, ma comunque funge da ottimo pretesto per la sussistenza di un corpo-teatro del vuoto o se si preferisce di un corpo senza organi, dove dovrebbe svolgersi quell’auspicabile “divenire animale”, (Deleuze) che costituisce l’estremo tentativo di farla finita con i dualismi della logica binaria, con la maledizione della scelta e persino forse con quell’impraticabile decisione per la morte, che ci dovrebbe restituire un esistenza più infelice e più autentica. Ma poiché le cose prime e ultime ci sono, per unanime consenso, irrimediabilmente precluse, financo qui nella finzione poetica, come irrefutabilmente tu ancora ci mostri, (19, 115) cosa ci rimane da fare a noi comuni mortali se non tacere per sempre, reclusi dentro una “torre abolita”, magari trasformata in manicomio, come il principe d’Aquitania o il veggente Hölderlin, sempre in attesa dell’angelo che gli bussi alla porta? Sicché mi viene la pelle d’oca se solo mi sfiora il pensiero che quel “Lui” che tu evochi ripetutamente, in termini non certo lusinghieri – come il mistificatore (22), il testimone passivo (23), l’inquisitore (27), il presunto muto (39), il mercenario tagliatore di teste (56) – possa essere proprio io, il non comune mortale (non quello in carne ed ossa per carità ma), il lettore implicito, il terzo incomodo del solito triangolo, il terzo fuori gioco e fuori testo, un ruolo per cui tutto sommato mi sento piuttosto tagliato, e però mi rimane pur sempre l’incombenza di ritagliarmi un luogo da dove parlare o scrivere e tale potrebbe essere proprio il vestibolo di questa tua orrenda superfetazione del dubbio amletico, cioè quella sua miniatura frattale che è Phénoménologie, da dove potrei gettare uno sguardo in tralice a questa proliferazione cancerosa di segni che hanno smarrito il loro referente: quella cosa stessa che è già defunta all’inizio, nel big bang dell’universo di discorso, nella vertiginosa danza sul posto delle sue particelle elementari, ivi inclusi anche i segni di interpunzione, nello sfinito ritornello “dalla prima stazione alla prima stazione”, (25, 31, 71, ecc.) – da dove, dicevo, potrei gettare uno sguardo di straforo, come quello dei servi di palazzo che tu stesso hai adottato nel tuo Amleto in più o come quello dei comprimari Rosencrantz e Guilderstern, i due compagni d’infanzia di Amleto, nel rifacimento di Tom Stoppard del capolavoro shakespeariano. In ogni caso ne uscirò fuori a pezzi o quantomeno strabico ma molto divertito nonché pervertito da questa improba impresa.
Il tuo dramma trinitario mi pare faccia perno intorno alla heideggeriana Sage, o “questione della cosa” che tu traduci, in reiterate variazioni, con l’impeccabile e perfida perifrasi di “saga a delinquere” (11, 61), di cui l’ineffabile protagonista è un “lui” menzionato e declinato in mille guise. Ma che comunque mi pare possa ridursi alla santissima trinità di soggetto dell’enunciazione, dell’enunciato e infine, ma non ultimo, del terzo incluso, di quel lettore implicito con cui temerariamente mi identifico. Decido dunque di rispondere a mia volta con una questione che – da inguaribile platonico, che crede che la bellezza debba essere il portale del mondo delle idee e non viceversa – rivolgo come comprenderai infine, non solo alla tua opera ma a tutta l’attuale cosiddetta poesia di ricerca, o addirittura all’intera arte concettuale dagli inizi del Novecento ai giorni nostri. E dal momento che credo che della letterarietà irrevocabilmente defunta sia rimasto solo il simulacro della lettera (racchiuso che sia nei bit di un carattere elettronico o di una intera mail) ho deciso di risponderti proprio in forma di missiva, contenente in un gioco di specchi il riflesso distorto e ritoccato della tua stessa sceneggiatura drammatica.
Ti anticipo perciò che questa mia recensione, o ricognizione che sia, riguarda in fondo The Mousetrap, titolo dato dall’inquieto principe (o principio) del dubbio, (Atto III, scena 2) al dramma dentro il dramma fatto da lui inscenare per cogliere gli indizi (o inizi) della connivenza dello zio e della madre, in questa tragicomica filogenesi della colpa che si annida nel genoma vivente già sempre vissuto. E dunque procediamo in ordine sparso, in avanti e a ritroso, da questo Atto III.
II: Tra le quinte
Phénoménologie d’altronde a sua volta iniziava in media res, per sottrazione grafica (“etc/ et/ e”), tutta in verticale, in una pioggia di particelle che introducono “la progressione in calando” che si distende provvisoriamente in superficie ma non si acquieta nella linea retta e bensì si rivolge su sé stessa, come fa il taglio inaugurale di ogni poesia, la crepa madre che si ripiega su sé stessa ad anello (Riss/Umriss) per segnare un fittizio orizzonte di senso in una nitida de-formazione grafica del pensiero sotteso, in una mirabile ostensione della traccia che è nel contempo supplemento e farmaco di ciò che sempre ci manca o che manchiamo per un soffio, di quella “bruciatura del neutro” di cui parla Blanchot come della restituzione forgiata al calor bianco del senso inteso dall’occhio del lettore, sicché il testo possa vivere di vita propria, entrare nel gioco del mondo, nell’intervallo fra questo e quello, l’ora e il non ancora, trastullandosi nel suo divenire morente ma così saggiando la sovrabbondanza nell’abbandono[1]. Poi una lettera e un apostrofo, “c’”, prendono il posto dell’apostrofe lirica, quella che chiama al proscenio un tu fittizio nel dialogo scandito, residuale, che traduce nell’orizzonte verbale il riflesso dell’io, il suo narcisismo primario, quell’atto di specchiarsi e affondare in una superficie equorea, nella pellicola traslucida di quel primo piano poroso e increspato su cui la volontà si trasforma in rappresentazione, in una teoria di plausibili chimere, in un infinito corteo di figure, in una catena di anelli che non tengono, una danzata teoria dello spreco: “dépense?/ oui, bien sur”. Ciò che qui viene dall’inizio in questione, come avverrà su scala maggiore in To Touch, è proprio questo gesto inaugurale dell’io poetico, questa allocuzione fondante che lo pone in essere, sicché tutto ciò che segue potrà essere un atto di certosina, spassionata cancellazione del riconoscimento di sé nell’altro, di questa schizofrenia dell’esserci nello specchio del pensiero di chi si aliena per tornare a sé stesso sotto gli occhi di un terzo, il perfido lettore implicito sempre in agguato. Come in una forma sonata, secondo lo schema di esposizione, sviluppo e ripresa (o restituzione di senso), quello che comunque garantisce alfine, attraverso tutte le variazioni, il ritorno in patria nella composizione tonale. Ma è proprio ciò che qui viene messo in questione, smontato e deposto per essere sostituito dalla pura serialità o disseminazione del senso che viene da te convocata nel rilancio della posta in gioco, nell’apoteosi schizofrenica del segno: “la serie gioca sulla disseminazione/ ma il prodotto è un fingitore…schizo al lavoro o semplice logica simbolica?/ n alla n e/ ancora/ altro”. ( )
Si tratta dunque di una procedimento schizomorfo che assorbe nel contempo il punto di vista sulla pagina e l’eco della parola, le ineludibili modalità del visibile e dell’udibile, in una più grave banda dello spettro sinestesico, quella tattile, dove ogni eidetica trascendentale, da Platone a Husserl, non ha alcuna chance di sussistenza, sopra o sotto il labile piano di incisione del segno, la unica pelle che ci resta: “Phénoménologie?/ pas de chance.” Nel mezzo si svolge il dramma atavico e apatico di ciò che consapevolmente si brucia e si consuma, il certosino esercizio di stile (o stilo) che cerimonialmente si cancella e depone sul suo multiplo, atopico, stratificato, piano di immanenza.
Phénoménologie è in verità una preziosa miniatura di tutta la tua opera, uno scrigno e un manifesto di poetica, un esercizio di riflessione sulla rifrazione della scrittura in una wilderness of mirrors, dove essa consuma sulla pagina la sua neoplasia incurabile di segni vivissimi, il procedere voluttuoso ed entropico che mette in scena la cancellazione di quel soggetto riflessivo, problematico fondamento di ogni verità, a partire dal cogito cartesiano, ma ancor prima e più dalla domanda inevasa del famoso monologo di Amleto, “essere o non essere” che viene infine da te ridotto alla sua base tattile “to touch or not to touch”. Perché l’Amleto di Shakespeare costituisce proprio il fondamento fantasmatico del soggetto moderno riflessivo e sentimentale (ossia commosso) appunto a fronte di quello ingenuo degli antichi, secondo la ben nota schilleriana distinzione: uno sprofondamento, in effetti, che si condensa specialmente in tre luoghi del dramma di Shakespeare: il famoso monologo che evoca la minaccia dei sogni a turbare il sonno della morte; il dramma dentro il dramma dove gli attori girovaghi mettono in scena il “marcio che c’è nel regno di Danimarca”, ovvero la connivenza dello zio assassino e della madre del principe inquieto; e per ultimo la scena del soppalco dove all’apparizione dello spettro del re defunto ad Orazio, Marcello e Amleto, sugli spalti del castello di Elsinore, segue l’intimazione di quest’ultimo agli altri due di giurare di custodire il segreto: “giurate!” ingiunge loro il principe della pallida tinta del pensiero che corrode ogni virile determinazione, “giurate!” e da diversi punti sotto il palco di questo mondo-teatro gli fa eco la voce del fantasma del padre: “giurate!!”, al che Amleto commenta “ah vecchia talpa, hic et ubique.” (Atto I, scena 5) Ubiquità e nomadismo dell’eco che mantiene in vita Narciso (già sempre sprofondato nello stagno della propria immagine riflessa) a formulare una volta per tutte drammaturgicamente la questione dell’esserci come sprofondamento del pensiero in un fantasmatico e proteiforme esserci stati, nella congiura di memoria e attesa, nel doppio legame di finitudine e colpa. Qui è già riassunta tutta la tragicommedia della modernità, mai superata fino ai nostri giorni: la lusinga di chi, pur se chiuso in un guscio di noce, potrebbe sentirsi re di spazi infiniti, se non fosse che gli capita di fare brutti sogni. Questo è lo scenario già apprestato per tutto il travaglio del pensiero avvenire, l’intera fenomenologia dello spirito da Kant a Hegel e Husserl, tutta la psicanalisi da Freud a Lacan, nonché l’arte concettuale che inizia e finisce con la mise en abyme del corpo-teatro dell’opera-mondo nel riflesso di un programma di snidamento delle modalità e dei livelli della colpa, custoditi appunto da storie annidate, storie dentro storie, come nelle Mille e una notte o come in un viaggio impossibile fino alla fine del tempo, alla consumazione di tutte le forme di energia e di vita nella crescente entropia prevista dalla seconda legge della termodinamica, nella lenta recessione delle galassie o se preferite da una programmatica po/etica dello spreco: da un arcaico, feroce rilancio della posta in gioco in quella immemoriale mimesi antagonistica in cui René Girard crede di individuare il principio di tutte le culture e cui nessun capro espiatorio di turno potrà mai porre fine. Ecco: con questa spassionata, sana iniezione di ottimismo, ti saluto provvisoriamente e ti abbraccio fratello mio, mio simile, autore-lettore. Benché da lati opposti, ci troviamo entrambi sulla stessa barca che fa acqua da tutte le parti: tu sai nuotare? Io sì, abbastanza bene, ma ultimamente mi accade che mi manchi l’aria anche sulla terra ferma.
III: Con tatto
Per concludere, ho appena finito di leggere il tuo poema paradossalmente amletico, perché nella “desistenza” che canti, non c’è spazio per le opposizioni e le scelte. Infatti il tuo testo è tutta una abnorme, deliberata consunzione del paradosso nell’ossimoro. Un flusso di incoscienza (che scorreva già, a ben vedere, in limine, nell’Ulisse e dilagava nel Finnegans Wake di Joyce), un riverrun che trascina le figure del discorso in un unico immane disastro congiunto del significante e del significato. Disastro soprattutto della metafora guida di un’intera civiltà: quella del Libro del mondo, già trasformatasi borgesianamente in una Biblioteca di Babele e poi in una Lotteria a Babilonia. Qui si tratta proprio della messa in scena di questo disastro: ma da parte di chi? Del soggetto dell’enunciato? Di quello dell’enunciazione? O della terza persona grammaticale di cui sempre si parla e che rimane muta in ascolto e in absentia? Comunque sia, la desistenza comporta la deposizione del soggetto (nel suo duplice aspetto di assoggettante e assoggettato) sul proprio biopsichico piano di immanenza, in uno spazio topologico che anch’esso infine si rivela fittizio, perché una volta che l’intera realtà si è trasformata in favola, la comunicazione stessa si contrae “sinestesica-mente” in una isterologia del contatto.
Ovviamente, dietro questa letale messa in scena, c’è tutto il retaggio dell’arte e del pensiero del Novecento, specialmente francese, perfettamente digerito e finemente elaborato nella deformazione morfo-sintattica e nella fibrillazione fonico-ritmica dei versi, che giunge fino a toccare le particelle elementari, enclitiche e proclitiche, e perfino gli apostrofi, restituendoci, anche a questo livello, quella sorta di movimento sur place, “dalla prima stazione alla prima stazione”, che è in effetti l’oggetto del discorso o del decorso, il canto funebre del de cuius, la sua deposizione in un loculo senza luogo né tempo: tantomeno quelli dell’utopia.
Che dire? Un trionfo dell’iterazione; un neobarocco teatro della crudeltà; un premeditato sproloquio di gargarismi e paranomasie, di antifrasi e perifrasi; di iperbati e anacoluti: un improbabile pastiche fra Gongora e Bataille, Artaud e Carmelo Bene. Non un flusso di coscienza, dunque, ma fuori dalla coscienza dentro il corpo del testo o la carne del mondo: quella calda e matura di Molly Bloom che ricapitola la parodia della civiltà letteraria in una giornata dublinese, le sue mestruazioni oniriche, un riverrun dove “il flusso è l’/ esatta e perfetta figura del moto” (123) e “le figure sono parte integrante del / flus- so”. (59) Non prestano resistenza appunto, si dissolvono e annegano: dove la désistance si coniuga infelicemente con la dépense. Un work in progress, dicevo, un lavoro in perdita, ambizioso e disperato, giocoso e gioviale, avvolgente piuttosto che coinvolgente: una esposizione della scrittura al dileggio più che alla lettura.
Una resa dei conti ironica e radicale con la tradizione letteraria, ma tutta performata al proprio interno, senza via d’uscita in un mondo qualsiasi, reale o possibile. Perché è il fenomeno del mondo, ciò che qui ci manca, l’esperienza ormai dissolta nell’esperimento, la cosa dispersa nella propria traccia o meglio deiscenza, senza luogo né tempo. Perché il tempo stesso della versificazione viene assorbito e neutralizzato in questa scrittura coatta, traccia e treccia di significanti, rizomaticamente disposti e dissipati a flusso, poi riannodati a cappio, per una sempre differita e differente impiccagione del soggetto. Anche il tempo dunque diviene un supplemento di tempo: per questo ci troviamo inevitabilmente, “perennemente in ritardo”. (114)
In questo disastro della versificazione dove le parole “si affiancano, poi/ cadono, si affiancano di nuovo,/ cadono di nuovo e si incolonnano” (121) Quando non ci sono più “disseminazioni da ostentare … ma solo poemi edulcorati da un surplus/ di peso”, (122) nuvole di intensità che si susseguono e si sfiniscono portate dal vento dell’inerzia. In una “infinita riproposizione del gesto/ inconcluso”, (123) nella ricerca della cosa elusiva e sfumata e della sua dimora “che non offre riparo né ristoro”, (124) quando “il/ superfluo detta le regole/ del gioco”, (125) in uno stato di sospensione tra movimento e stasi (126), tra “figure imperanti che/ insistono nel riproporre l’/ egemonia del significato” (127), dove solo “resiste la reversibilità di un fronte-retro/ votato alla sua assenza di fondo”. (128) Nell’estrema consapevolezza che nella mancanza conclamata del referente si vanificano anche la scrittura, la forma, lo stile, la comunicazione: “si/ manca nel contatto tra me e voi”. (129) Così procediamo sempre reciprocamente in ritardo e controtempo, non riuscendo mai a raggiungere l’altro che ci sopravanza, (130) e “non ci resta che dire sì,… sì, siamo noi, quelli/ perennemente in ritardo, perché non/ abbiamo cose, né io, né noi, né voi, né sul fronte, né sul retro di quella pagina / fin troppo piena da risultare vuota”. E allora non ci rimane che metterci in pausa e osservare nello specchio l’altro che ci tende la mano, a certificare “inoppugnabilmente l’/ impossibilità di toccarci,/ la désistance, che lampante colpevolezza!” (131)
Come dicevo, mi piace pensarlo, tutto questo, alla luce di quella squisita plaquette, Phénoménologie, ritaglio frattale di questo disastro del mondo, a partire dalla sua clausola: “Phénoménologie?/ pas dé chance”. E allora ecco che si comprende l’inevitabilità di questa teleologia negativa, di questa “storia di fantasmi” in cui già per Stephen Dedalus, nella Biblioteca di Dublino, si risolveva l’intera tradizione letteraria, proprio in una caricatura del rapporto tra padri e figli, in una improbabile ennesima interpretazione dell’Amleto di Shakespeare.
Che fare ora? “Morire, dormire, sognare forse…”, oppure fare un passo di lato, nascondersi dietro le quinte del Theatrum mundi, per scrutarlo di nascosto, gettando uno sguardo strabico e insignificante sul dramma comunque in corso: lo sguardo dei servi di palazzo, come tu suggerisci nel tuo Amleto in più, o quello dei compagni di infanzia del Principe del dubbio, Rosencrantz e Guildenstern, che dovrebbero portare la sua sentenza di morte in una missiva sigillata indirizzata al re d’Inghilterra da parte dello zio assassino. Ma una missiva è un atto di scrittura, una “manomissione” che può pur sempre essere manomessa (come lo è infatti ad opera del medesimo principe) sì da diventare la loro sentenza di morte. La scrittura non è affatto affidabile come esecuzione di un compito (o interpretazione di un mondo) ricevuto, ma che altro ci rimane se il flatus vocis ci manca e l’esperienza in prima persona, scevra da pregiudizi, ci è da tempo (nel tempo) preclusa? Affiderò dunque la mia sentenza a questa missiva che ti scrivo sinceramente da lettore ad autore, mettendo in parentesi il fatto inoppugnabile che non ci troviamo già più da diverse decadi in uno spazio letterario e bensì in uno intermediale dove le vecchie regole del gioco, se mai sono state vigenti, non valgono più di certo, a partire dall’assioma fondante della letterarietà, quello dell’asimmetria fra te e me, autore e lettore, che mi teneva estraniato e protetto in un silenzio obbligato, in una auscultazione muta e partecipe del tua parola, della tua preziosa donazione di senso rilegata tra le copertine di un Libro.
Con tutta la sentita nostalgia per il consueto, rassicurante spazio letterario, ti invio i miei più affettuosi saluti e auguri di lunga vita a Bologna in Lettere, che è il tuo capolavoro drammaturgico, nonché già di fatto da anni un evento intermediale, un Requiem in guisa di Gloria, sapientemente orchestrato per il nostro beneamato mondo del libro.
Enzo Campi (Caserta, 1961). Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. Autore e regista teatrale, videomaker, poeta, critico. Suoi scritti sono reperibili in rete su svariati siti e blog; e in forma cartacea su antologie, riviste, cataloghi di mostre. Ha curato prefazioni, postfazioni e note critiche in volumi di poesia, prosa e saggistica. Ha curato inoltre volumi monografici su Emilio Villa, Pier Paolo Pasolini, Amelia Rosselli. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo ex tra sistole (Marco Saya Edizioni, Milano 2017), L’inarrivabile mosaico (Anterem, Verona 2017, vincitore del Premio Lorenzo Montano), Artaud. Il supplizio della lingua (Marco Saya Edizioni, Milano 2018), Le nostre (de)posizioni, scritto con Sonia Caporossi (Bonanno, Acireale -Roma 2020), Fuochi Fatui (Oèdipus, Salerno 2021), To touch or not to touch (puntoacapo editrice 2022), e la curatela BABEL stati di alterazione (Bertoni Editore 2022). È stato tradotto in inglese, francese, spagnolo, russo, polacco, rumeno. È direttore artistico del Festival Multidisciplinare Internazionale “Bologna in Lettere”, giunto alla XI edizione.
[1] Questa è un’anticipazione dello scroscio verticale che ci investe a più riprese in To Touch or not to Touch, costituendone uno dei principali Leitmotive, significando la Chora platonica, “La scuola senza maestri”, lo spazio del dis-farsi del multiverso del discorso cosmico-poetico. (31, 45, 75, 110, 121)