“La leggenda della primavera” di Massimo Morasso. Versi brillanti dentro una dimensione mistica.

segnalazioni letterarie 

 

S’intitola La leggenda della primavera, è la nuova silloge del poeta Massimo Morasso pubblicata da Algra nella prestigiosa collana, “Ginestra dell’Etna”, diretta da Maurizio Cucchi e Antonio Di Mauro.

Sin dalla prima Sezione del libro, Nel ritmo del ritorno, lo spirito motore è quello di una spinta contrappuntistica, dove a combinarsi, con effetti suggestivi, sono, appunto, i motivi della “storia” e della “leggenda”. Dall’insieme dei testi, alcuni in versi altri in prosa, ma come intrecciati nel loro mosso alternarsi, si genera una specie strana di “racconto” fatto di parole-immagini nate a seguito di un’avvenuta trasfigurazione della realtà: «Nell’ansa dove Wimpfen e le torri / scivolavano dal lungofiume giù alle chiatte / misurate nel ritmo del ritorno / come ninfe o residui dello sguardo / resistevano.». Con più evidenza si riproduce qui il segno del contrappunto in forma di dialettico rapporto tra “ritmo” e “ritorno”, attraverso il quale il poeta percepisce come il principio primo di ogni cosa, l’origine, l’archè, non abbia mai avuto fine, in realtà, e sia, perciò, pur sempre attivo e presentissimo nel nostro esserci storico. Di questa verità, o “illuminazione”, è messaggero il “portavoce”, che ci rende partecipi di un viaggio interminabile ma non esclusivo dell’uomo che lo compie, e ci informa per coinvolgerci, noi che quasi sempre lo misconosciamo: un viaggio che significa “ritorno”, cioè a dire un esercizio di cammino, ovvero, insomma, quasi un pellegrinaggio “sacro” verso la fonte della genesi. Il poeta, perciò, è il viaggiatore cui questo viaggio di auto-ri-conoscimento è reso possibile da un passo insieme fisico e interiore, atto a rispondere, qui e adesso, al “ritmo” impresso alla parola poetica dalla cadenza sequenziale del verso. Ciò comporta una condizione di distacco, cioè di allontanamento e abbandono di una viscida superficie cosparsa di inciampi, visioni ridotte, minimali, di orizzonti offuscati e opachi, in favore di un recupero (per così dire) à rebours della memoria e dei suoi lasciti.

E proprio “distacco” è la parola che dà il titolo al secondo “movimento” o Sezione del libro. Il termine non va inteso di certo nel senso di “separazione” o, peggio, di lacerazione affettiva, di abbandono e perdita irreversibile. Tutt’altro. Il “distacco”, qui, è una dimensione di sospensione («Vedi, il distacco / è come una striscia di sabbia / sospesa tra due mari.») congeniale a un itinerario “mistico” della mente («La via del distacco / non ha luogo, / passa per vecchi luoghi / e vecchie immagini, / magari le più trite, / si aggira per sentieri imprevedibili /…») verso quella meta della “origine”, che comporta come una specie di annientamento sacrificale della propria individualità («… Il distacco a guardar bene è la ragione / e la ragione è la fede / nelle ragioni dell’invisibile. /…»), di abiura di quel “io” egocentrico cui si contrappone l’io lirico-narrante del “portavoce”, dell’altro da sé, a guisa di trasfigurazione della realtà di superficie, con tutti i suoi falsi emblemi, le sue vuote parole, i suoi effimeri contenuti/proposte e allettamenti («… Distacco è gettar via l’abito / per non soccombere davanti al demonio: / è una disposizione del pensiero che s’indentra / nella fortezza della sua umiltà.»; e ancora: «… il ronzio / che monta su da questi / nostri sempre più asettici inferni / nelle centomila arnie del nulla / ho visto agitarsi le false api o miopi / che contano sul visibile / per tirare avanti / per lasciare traccia di sé / oppure non lasciarla…»). Ciò che ne scaturisce è paragonabile a un processo di sostituzioni, messo in opera da una sorta di presumibile “dàimon” personale (del resto già all’alba della nostra cultura occidentale Eraclito aveva sentenziato «Dèmone a ciascuno è il suo modo di esistere»), concepite come strumenti di purificazione interiore tramite un recupero verginale della memoria, del proprio vissuto («Ho sempre pensato necessario scrivere / qualcosa sull’arte del distacco. / Interrogarmi / e ricordare, e ricordando / affidarmi alle parole, a un gesto estremo di pietà.») e anche dei luoghi che furono teatro di una toccante vicenda sentimentale, e che diventano, adesso, dei “luoghi dell’anima”. Un recupero dal quale emergono figure e immagini intensificate, cariche di tempo – che, ricordiamolo, è fatto di passato, presente e futuro – pur nella consapevole prospettiva del loro destinale disfacimento.

Nutrita dal ricordo dei viaggi in Irlanda, a Londra, a Toledo, sul fiume Neckar, a Dubrovnik e Arles, la geografia dell’anima diventa preminente nel terzo “movimento”/Sezione del libro, Le storie dell’aria. Qui la scrittura è individuata come quel “gesto di pietà” che si oppone all’idea, volgarmente e superficialmente intesa, dell’inutilità della poesia: un “gesto” che diventa un atto di ostinata resistenza, paragonato a quello della bassa marea che «… / restituisce pochi segni di vita sopra un foglio / sterminato di sabbia rugoso come un deserto». E cosa meglio dell’aria, intesa nell’accezione analogica di dimensione interiore (spirituale)/esteriore, nel suo essere respiro dell’universo sensibile, della realtà tangibile, può costituire lo strumento di movimentazione e trasformazione in sogno di tale realtà, o persino di abbattimento della barriera che separa l’al di qua da un “altrove”, al fine di veicolare un medianico rapporto tra i vivi e i morti, come l’autentico sentimento del mistero dell’esistenza («Bisogna credere, bisbigli, all’altra vita / e intanto ci aggiriamo indugiando / fra gli aperti sarcofaghi…»; nella sua interezza il testo è ispirato dalla visita al cimitero di Alyscamps)? Allora la poesia si fa evento e “accade” come la vita stessa “accade”, percorsa da un laico sentimento religioso, che non può non condurre sulla via della speranza.

Da qui proviene alla scrittura di Morasso una chiarezza, un andamento disteso, una linearità e un’atmosfera di sospensione, dove ogni cosa, ogni aspetto, è al proprio posto, è proiezione e forma del pensiero, correlativo di un ritmo rallentato che placa l’inquietudine, o la stempera e la distribuisce per vie orizzontali, ravvivate, tuttavia, da una luce di conoscenza verticale che vibra in sintonia con i ritmi degli affetti, e quelli naturali del giorno e della notte, e delle stagioni.

(dalla prefazione di Antonio Di Mauro)

 

scelti per voi 

Alla fine non è stato che un dono,
solo qualche parola
messa nell’aria a fare compagnia fra una canzone e l’altra
c’era il poemetto di Fiore perso nell’azzurro,
un tavolo,
il rospo grande nascosto nell’erba
e, più su, a mezza costa, la strada sterrata
che portava a un punto chiaro di neve
e di silenzio.

Se insisti a sottrarre si aprirà un’altra ricchezza.
Se mi abbracci sarà come costringermi
a immaginare il bene, il nostro prossimo cammino.
Ma è davvero crudele la stagione del disgelo
se chiede di far rinascere le cose
di nuovo vive in un ritmo d’amore.

Trattienimi,
trattieni anche i cumuli di neve
sopra al cristallo illividito dei lampioni,
trattieni per me ogni parola ogni smarrimento
perché io, ora lo sai, sto scomparendo.

**

Nella nebbia tra inzuppati pantani
si supponeva il fiorire dell’erica. 

**

Sarebbe stato bello attraversare il Burren,
perdersi, diventare terra. 

**

XIV.

Questa legge non ha radice.
Né fine.
O il cuore
trafitto nella lingua.
Nel chiaro distacco
il punto di raduno
dei ricordi dell’anima
lo spazio di purissima coscienza
protetta tra le palpebre
chiuse per pensarla. 

 

 

 

SCHEDA LIBRO

Sinossi: La scrittura di Morasso [ha] una chiarezza, un andamento disteso, una linearità e un’atmosfera di sospensione, dove ogni cosa, ogni aspetto, è al proprio posto, è proiezione e forma del pensiero. […] Quale la figura del poeta che emerge da questo libro, se non quella […] di un “dàimon” contrapposto all’io personale ed egocentrico? Un “altro da sé” destinato a partecipare del respiro dell’universo, che si è svincolato dai legami contingenti e superficiali della realtà per scendere in profondità, entrare nelle viscere del “senso” e restituircelo ex novo nella forma di una proposta linguistica atta a dare testimonianza di un’esistenza rigenerata.

Autore: Massimo Morasso (Genova 1964) ha scritto il vasto ciclo poetico de Il portavoce (in più raccolte, con L’Obliquo 1997 e 2000, Raffaelli 2010 e Jaca Book 2012) e altri tre libri di versi: Le poesie di Vivien Leigh (Marietti 2005), L’opera in rosso (Passigli 2017), American Dreams (Interno Poesia 2019). Germanista di formazione, come studioso ha pubblicato dei libri su Cristina Campo, William Congdon, Walter Benjamin e Rainer Maria Rilke, associando anche una eccellente attività di traduttore, in particolare dal tedesco (Meister, Rilke, Goll) e dall’inglese (Yeats, Jones).

Pubblicazione: giugno, 2023.

Categoria: Poesia.  

ISBN: 978-88-9341-660-3

Scheda libro: https://www.algraeditore.it/poesia/la-leggenda-della-primavera/

Distribuzione: Libro Co. Italia srl – www.libroco.it 

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