l’Autore racconta
L’adolescenza è il tempo in cui si misurano gli spazi: del mondo fuori e dentro di sé. Ecco il motivo per cui Emilio si aggira per Nuoro sentendosi una «creatura di un mondo diverso gettata per palese ingiustizia in un ricettacolo di barbarie». Forse perché arriva da Oristano, forse perché è ricco, forse perché è figlio dell’ingegner Corona, che ha costruito mezza Sardegna. Pasquale Cosseddu, invece, è«la Fogna»: indossa maglioni dozzinali, in testa ha un groviglio di capelli sporchi, e puzza terribilmente. Solo quando si arrampica sugli alberi o si rotola nelle foglie la sua vera indole – di capra, o di angelo – si rivela. Non c’è ragione al mondo per cui debbano diventare amici. Ma quando si ritrova Cosseddu come compagno di banco, Emilio intuisce, e volontariamente sceglie, la sua maledizione. Alessandro De Roma affronta di petto una storia colma di cattiveria e di dolcezza: le prove generali della vita adulta. La Sardegna urbana degli anni Novanta, lontana dal folklore, fa da sfondo a un romanzo potente, sottile nello scavo psicologico, che parla alla parte piú profonda di tutti noi: quella che – per convenienza, vergogna, o semplice paura – preferiamo tenere nascosta.«Con Cosseddu io ero bambino e re del mondo. Quello era il dono che lui aveva fatto a me, mentre io gli davo la tenerezza che non avrebbe potuto trovare altrove. Correvamo sui muschi scivolosi e cadevamo rialzandoci senza lamentarci del dolore; e in questo esercizio lui era mille volte piú bravo di me».
Questo libro l’ho scritto per tutte quelle persone che l’indifferenza, l’immaturità o la vigliaccheria hanno lasciato indietro; quelle che ho lasciato indietro io, per primo, perché non ho avuto la forza o il coraggio di guardare dove bisognava guardare.
Una stralcio da “La mia maledizione”, Einaudi 2014, I coralli. L’onnipotenza quando si è adolescenti è il regalo più grande che si possa ricevere, perché equivale a permanere con un piede almeno nella tanto rimpianta infanzia e nel groviglio inestricabile di tutte le possibilità inespresse: con Cosseddu io ero dunque bambino e re del mondo, e quello era il dono che lui aveva fatto a me, mentre io gli davo la tenerezza muta e asciutta che si faceva bastare così bene e che, del resto, non avrebbe potuto trovare altrove, visto che era per tutti la Fogna, e per sua madre, a quanto ne sapevo allora, un impiastro. Lo amavo soltanto di riflesso, perché in lui amavo me; ma chi avrebbe potuto negare che questo era meglio di niente? Per questo stavo così bene con Cosseddu, pur senza doverlo chiamare amico; e anzi pronunciavo il nome Cosseddu come si pronuncia la parola cane, tanto più che per chiamarlo usavo gesti o mugugni e quasi mai il suo nome. Ad ogni modo lui era felice di essere il mio cane o anche il mio schiavo, e sempre lo sarebbe stato; e questo, solo io e lui lo potevamo capire. Non si lamentava neppure quando avevo sbalzi d’umore e capitava che lo trattassi male, e semmai coglieva l’occasione per aggrapparsi a me con maggior forza perché aveva imparato che, quando si tratta male qualcuno, è perché si dà per scontato che non possa smettere di starci accanto.
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