Il silenzio, quella bolla d’aria
che si crea tra corpo e corpo,
è uno spazio bianco nel foglio,
una pausa musicale che tiene
sovrapposti i significati primari.
Una maschera senza allegoria
pronta a invadere il volto degli attori
in una scenografia sempre diversa
e quel silenzio ce lo portiamo da tempo
nella tavola apparecchiata per cena,
quel silenzio appena appena sussurrato
i primi giorni di convivenza, messo a tacere
come l’idiota della compagnia,
adesso ha invaso il respiro,
l’ha reso ingombrante
come il secondo preparato per festeggiare
gli anni insieme, secondi solo ai tuoi
sbuffi, provenienti dal fornello vivo
fuoco di momenti da non poter essere più
riscaldati, immangiabili il giorno dopo.
Suonavamo le pietanze in arie di ceramiche e ferro
al ritmo di pane sbriciolato, masticato, deglutito,
suonavamo non più sorrisi, la fretta di mangiare
per poi mangiarci di baci le bocche,
nel presente non siamo rimasti che
verdure lessate nel brodo, galleggianti,
rimaste mosce, insapore,
come un dio licenziato dalla gente.
*
È un’epoca esaurita nei rimandi riscaldati di minestre
già predisposte, sfinita in una corsa
ad ostacoli senza traguardo.
Sciolta nelle rughe di due specchi contrapposti,
nell’arcata di una chiesa sconsacrata,
alla mercé di writers sballati,
sopraffati dalle mode.
E noi siamo qua, vestiti di vergogna,
il volto disfatto dall’espiazione che dura
un’esistenza, raccolti nell’ansia
di lasciare una scia umidiccia e trasparente
che evaporerà senza premio o menzione,
senza strisciare almeno il selciato.
E fummo qualcosa nei ricordi, protagonisti
di pochi secondi anche se in corso
c’era la nostra storia, per il resto
lo spazio l’abbiamo lasciato agli oggetti
che chiamavamo per nome, alle situazioni,
a quei meccanismi che ci portavano a riva
salvi, senza aver guastato la perfezione
dell’orizzonte, la vampata del tramonto.
A mezzanotte allergici all’aria,
la confondevamo con la forza dei polmoni
ingessati da una catena di sigarette,
e ore passate a cercare un monolocale all’inferno
a contare gli spiccioli di rimorso,
incapaci di aggiornarci al corso delle novità,
incessantemente,
sbattere le palpebre per rinfrescarci dall’afa
avariata di questa stanza,
con gli occhi ostaggi dei pixel,
dannarci per l’angoscia e morire senza far rumore,
lasciarci senza rancore, senza rabbia,
amarci dannatamente senza dolore,
il nostro sogno vile:
amarci senza dolore.
*
Andare a braccetto con le proprie compulsioni
sviscerate andarci a puttane il sabato sera
fuori dalla zona industriale dei tuoi giorni,
portarti prima all’autolavaggio, il tuo confessionale,
il vestito buono, la camicia non marchiata
dal sudore, e andare in lisciata, gettarti
nelle strade a farti abbagliare dai fanali
dei ratti, tu e il tuo passeggero senza sosta fissa
mentre dallo stereo In the deathcar ti ricorda
che questa tangenziale finisce stasera,
e batti le mani sul volante le batti in ritirata
ancora, al crescendo di un passaggio
che non offri, l’autostop per i lampioni
regolari, di un ritmo dal retrogusto blues,
acceleri e continui a battere i palmi e sai
che non hai il coraggio di proseguire
e finirai come ogni volta a imboccare l’uscita
di sicurezza; il piede sul pedale
per non fermarti a pensare
che stai andando ma sei sempre qua,
immobile nelle tue piccole ossessioni
e ti ricordi gli anni in cui ti dicevi mai mai
All we’ve got is the silence
In the deathcar, we’re alive.
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