La vita esiste anche per essere raccontata

francesco costa su l'estroverso

l’Autore racconta

 

Il dopoguerra a Napoli, credo, non era affatto uguale a quello di altre città. Il dopoguerra nella Sanità, quartiere citato nel titolo di uno dei più noti testi di Eduardo De Filippo, a sua volta non era uguale a quello di zone più signorili. In strada e nelle case, ma soprattutto nei bassi, non si faceva che urlare. Tutti litigavano, si picchiavano in una baraonda senza fine e, chissà perché, sognavano, di andare a vivere in America. Erano probabilmente convinti, per averlo visto in tanti film hollywoodiani, che negli States si mangiasse a quattro palmenti. La graziosa Vera, che abitava al piano di sotto con due sorelle meno avvenenti, diceva di somigliare alla bionda e sorridente Doris Day, ammirata in tanti film musicali, e si rammaricava di non poter vivere a Hollywood dove, diceva lei, sarebbe diventata una diva di fama mondiale!

Mia madre, una bellissima ragazza tedesca appena diciottenne, si era sposata in fretta e furia, complice un autentico colpo di fulmine, con mio padre che, bruno e latino, usciva magro come un chiodo da un campo di concentramento nazista situato in Baviera, in cui aveva vissuto una villeggiatura di ben due anni. Litigavano anche loro: l’attrazione fisica era stata così forte da impedire, soprattutto a lei, di capire che fra loro non c’erano affinità caratteriali o culturali o di qualsiasi tipo. Per me nessuno aveva particolari attenzioni: attento e pensoso, ma pieno di gioia di vivere e curioso di tutto, avevo tutto il tempo di farmi un’opinione sul mondo. Vedevo nella vita un interminabile spettacolo pieno di strilli e colori che poteva essere raccontato in mille modi diversi. La mia vocazione di scrittore affonda le radici in quella formidabile scoperta: la vita esiste anche per essere raccontata. Potevo essere uno specchio che rifletteva la vita e duplicarla in una serie infinita di racconti. Il cinema era la mia religione: mi immergeva nella bellezza di luoghi che non visiterò mai o di volti che non vedrò mai. Rita Hayworth si limitava a sfilarsi un guanto e tutta la platea, affollata fino all’inverosimile fra volute di fumo, tratteneva il respiro come di fronte a un evento rapinoso, irresistibile, fatale. Neanche se si fosse completamente denudata, la diva avrebbe acceso quello spasmodico senso di attesa nei suoi ammiratori. Io tornavo a casa ogni sera dal cinema e raccontavo il film alle zie e ai vicini di casa, ma modificandone il finale e altri passaggi, e così quelli correvano a vedere il film per poi rincasare irritati e delusi: “Ma il finale è diverso! Non finisce come ci hai raccontato tu! È tutto un altro film!” Alla fine, però, erano indulgenti e mia zia sussurrava: “Come lo racconti tu, il film è sicuramente più bello!”

A sei anni dico che voglio fare lo scrittore e tutti mi ridono in faccia. Gli scrittori devono vivere a Milano, mi si dice, e Napoli è fuori da tutte le rotte civili. Intorno a me scuotono il capo. Qui ci sono solo Mau Mau e Zulù, e tu pretendi di fare lo scrittore fra i Vergini e via Foria? Vivere a Napoli, dicono, non differisce poi tanto dal vivere in Papuasia. Ti aspetti a ogni passo, che so, d’incrociare pappagalli o volpi o altre bestie strane. E allora bisogna scappare. Raggiungere la civiltà. Corro a Roma, la Città Eterna, per fare lo sceneggiatore: voglio scrivere un sacco di film e farli recitare a donne bellissime come la Lollobrigida o la Loren, o a Claudia Cardinale, ma arrivo troppo tardi. I grandi maestri muoiono uno dietro l’altro come pachidermi giunti alla fine, da Federico Fellini al titanico Roberto Rossellini (che mi affiderà un piccolo ruolo in uno dei suoi ultimi film) e a Pier Paolo Pasolini, vilmente assassinato in una landa in riva al mare. Cominciano ad andare di moda piccoli film, girati a casaccio e recitati da cani, in cui registi spettinati e dal fare nervoso raccontano i cavoli propri quasi fossero eventi d’importanza capitale, e la cosa straordinaria è che vengono acclamati come autori finissimi sia in Italia che a Parigi. A conoscerli di persona ti gira la testa per quanto sono inutilmente aggressivi e scortesi. È la deriva narcisistica di una certa borghesia, convinta della propria superiorità morale e interiormente ricca quanto un cespo di lattuga. Dov’è finita Rita Hayworth? E che ne è stato del grande cinema della mia infanzia? In questo proliferare di filmetti autobiografici con data di scadenza scolpita nei titoli di testa, il lavoro scarseggia e la voglia di raccontare storie mi divora come un puma. Affronto così la scrittura del romanzo, passando attraverso tre raccolte di racconti, e scopro la mia vera vocazione. Pubblico libri con editori importanti, ma scarsamente interessati alle mie doti, e vedo che anche in letteratura domina quella moda che oggi si chiama autofiction: i romanzieri ritengono che raccontare le proprie vite, banali e ordinarie oltre ogni limite, sia di universale interesse. Comprendo finalmente che in Italia è difficile, per non dire impossibile, imporre un talento artistico al di fuori delle logiche di potere. Faccio come se niente fosse e tengo duro, ma inizio a girovagare da una casa editrice all’altra, tutte di prima grandezza, per trovare un editore che, dopo aver misurato l’amore assoluto che nutro per i miei lettori, abbia tempo e voglia di far arrivare i miei libri a quante più persone è possibile. Mondadori, Rizzoli, Marsilio e adesso Bompiani (con una copertina favolosa) sono le tappe di un’evoluzione artistica, di una crescita personale, della ricerca di un pubblico che, dopo quasi venti anni di applicazione e di duro lavoro, si va progressivamente addensando intorno ai miei libri.

Orrore Vesuviano è forse il più riuscito dei miei romanzi, almeno stando al giudizio di amici che ormai da anni mi seguono con attenzione: una cittadina immaginaria (ma simile a tante cittadine del nostro Sud) arroccata sul Vesuvio e dominata dalla paura, una donna bellissima, un tiranno dai modi affabili, due zitelle che la sanno lunga, un nugolo di bellissimi giovanotti così sensibili al fascino femminile da non vedere il pericolo che si annida dietro l’oggetto del loro desiderio e soprattutto un bambino pieno di fantasia. Ecco gli ingredienti di un “noir” in cui le tragedie sono raccontate con un umorismo feroce, le parti comiche celano un fondo di amarezza e ogni personaggio assume un rilievo archetipico.

 Stralcio da Orrore Vesuviano

(Bompiani, collana Letteratura Italiana, 2015)

copertina Orrore Vesuviano di Francesco Costa su l'EstroVerso

C’è da specificare che Orrore Vesuviano detiene un primato assai curioso: vanta il numero più alto di pallottole vaganti in un giorno. Sono circa trecento. I proiettili volano da tutte le parti nell’arco delle ventiquattr’ore, perché qui abitano giovanotti dal cervello grande come quello di un pulcino, ai quali piace da matti sparare. Non sempre però hanno una buona mira, e sono tante le occasioni in  cui mancano il bersaglio: così le pallottole se ne vanno a spasso nell’aria che fischia senza che ci sia il vento, e ogni tanto vedi cadere stecchiti là una suora e lì un droghiere e un giorno ci ha rimesso la pelle perfino un chierichetto che era panna e burro come un cherubino, e gli hanno fatto un funerale così struggente, con la bara e mazzi di gigli fragranti, che s’è messo a singhiozzare perfino il suo assassino. Da queste parti, insomma, capita che uno cada in mezzo alla strada come un pupazzo di segatura e spesso per non rialzarsi più. Stando così le cose, non c’è da stupirsi se i cittadini di Orrore Vesuviano si dispongono frementi allo sgomitolarsi di giorni avventurosi, e sobbalzano ai rumori insoliti perché la pallottola vagante è democratica e non guarda in faccia nessuno, così può toccare a tutti di svoltare un angolo e beccarsi un proiettile in fronte, e allora buona notte ai suonatori! Il vero nome di Orrore Vesuviano non se lo ricorda più nessuno, nemmeno i più vecchi fra i suoi abitanti, e a causa di tutti questi ammazzamenti ormai lo chiamano così perfino sulle carte geografiche.

 

 

 

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