Landskip. Marika Vicari, Jernej Forbici

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Jernei Forbici, Sleep in the fire, 2015

Mentre il pianeta è a una svolta e il principale interrogativo sembra essere come salvaguardare – in extremis – l’ambiente in cui viviamo, mentre gli scienziati paventano scenari apocalittici su quello che potrebbe accadere del nostro futuro se soltanto la temperatura della Terra sia alzasse di altri due gradi, due artisti ci presentano la loro idea di paesaggio. Firmata da Jernej Forbici e Marika Vicari, Landskip – inaugurazione sabato 16 gennaio h. 18-21 | Galleria Punto sull’Arte  a Varese (Casbeno) – non è semplicemente la doppia personale di due artisti che hanno dedicato tutta la loro arte alla natura, ma è, soprattutto, un progetto installativo che ci invita ad entrare, a farsi percorrere lentamente. Un bosco incantato che attraverso lo stormire dei rami e lo scricchiolio delle foglie sotto i piedi ci racconta storie antiche. Non una mostra di denuncia, ma un memento sussurrato. E’ da quando ha iniziato a dipingere che Jernej Forbici ci fa partecipi – con la sua pittura potente, pastosa, intrisa di echi antichi – delle devastazioni perpetrate in Slovenia dalle fabbriche di alluminio, eppure ciò che domina su quelle tele grandi, ipnotiche, è un senso di grazia, di pace regalata, che si concretizza negli sfondi dalla suggestione rinascimentale. E il dialogo diventa un canto malinconico nei delicati lavori a grafite su legno di Marika Vicari: distese di alberi spogli che si allungano all’infinito, prati dormienti sotto la coltre leggera della neve, rami vibranti nella brezza profumata di muschio.

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Jernei Forbici, 263 camouflage flowers, 2015

Jernej Forbici e Marika Vicari

“Sarà come entrare in una natura altra, in un paesaggio dalle grandi forme: una pelle sottile fatta di terra rossa, grovigli e intrecci di piante ed erba, foglie calpestabili a ricoprire il suolo, una fonte di aria e calore, potente, che ne mantenga la freschezza e morbidezza e una di luce che anima due installazioni. La mostra si apre come un dialogo e un confronto attorno al grande tema del paesaggio, in una terra fatta e attraversata dall’uomo e da lui organizzata; lanciandosi in totale libertà, non solo per parlare di ambiente, o per fare denuncia, ma per riportare l’attenzione dell’uomo-spettatore in situazioni normali – o stranianti – che mettano il suo corpo in una relazione inedita con il naturale nei suoi molteplici aspetti. Paesaggi che evocano la terra, crepe, foreste, fenditure… metamorfosi del luogo e del tempo, dei linguaggi e delle realtà che li determinano. Landskip è una mostra che guarda al paesaggio sia come evoluzione della vita moderna (già antropizzato, come nel caso di Jernej Forbici) che come sola natura (quella dei boschi e degli alberi di Marika Vicari) considerata come risorsa indispensabile per la biodiversità e la bellezza. Evoluzione della terra, manipolazione, distruzione, uomo, paesaggio, biodiversità e clima, identità e ruolo della foresta: sono questi alcuni dei temi portanti della mostra. I due artisti intendono così interrogare non solo la questione ecologica da anni protagonista della loro ricerca artistica, ma anche le modificazioni dell’ambiente-terra quale risultato della nostra cultura, della civiltà e della storia. Con i loro lavori, Jernej Forbici e Marika Vicari cercano la definizione della loro stessa identità nel paesaggio, inteso appunto come Landskip, nel senso più antico del termine. Ecco allora che al di là delle manipolazioni, della deforestazione e dell’inciviltà o a volte volontà stessa dell’uomo… la natura è l’unica vera risorsa capace di rigenerarsi e creare vita”.

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Jernei Forbici, Use and abuse, 2015

Anteprima dal testo in catalogo

Dove sta la risposta agli interrogativi più impellenti di questo nostro momento storico? Esiste una via d’uscita praticabile? Mentre gli scienziati ci dicono che il tempo stringe e mentre i capi di stato cercano di mantenere vivo l’interesse su un problema che sembra così lontano rispetto agli stravolgimenti più tragici e più vicini del presente, ognuno di noi deve porsi queste semplici domane.

Lasndskip è una delle soluzioni possibili. Quella poetica dell’arte ma anche, in un certo senso, quella emotiva – di pancia – di due giovani che hanno il mondo davanti e che sono appena diventati genitori: oggi, forse, la più audace delle scommesse. E la risposta secondo loro è qui, in questo bosco dove ci invitano a perderci, ad abbandonarci. La risposta è negli alberi, ancorati a questa terra malata con le loro radici ostinate, ossessivamente rivolti verso un cielo che di giorno in giorno si fa sempre più carico di minacce. Ma loro, gli alberi, non lo sanno: la loro saggezza antica – tanto più profonda e vera della nostra – sta nel respiro lento delle foglie e nello scorrere inesorabile della linfa. Gli alberi sono la redenzione.

Ed eccoli qui, gli alberi di Marika Vicari, nei panorami scanditi da percorsi di tronchi che ci invitano a passeggiare senza meta. A smarrirci. Non c’è nulla di lezioso, in loro. Tutto ciò che è abbellimento, ornamento, malizia viene accuratamente evitato dall’artista. O tagliato fuori dall’inquadratura. Le foglie non ci sono, già spazzate dai venti autunnali o semplicemente ignorate, inutili. Perché il richiamo è concentrato in quei tronchi solidi, ben piantati nel terreno. E anche se appaiono come avvolti da una nebbia leggera, fantasmi evanescenti all’orizzonte, la loro sostanza robusta e legnosa, imperturbabile, è lì davanti a noi come un monito e un appiglio al tempo stesso: “Attento: questo ti resta a cui aggrapparti per ritrovare la tua essenza più autentica. A meno che tu non riesca a far sparire anche noi…”.

Marika Vicari canta la grazia degli alberi da sempre. I suoi lavori a grafite su legno – tavolette oppure grandi superfici in pioppo che lei amorevolmente prepara e scartavetra fino ad ottenere la consistenza perfetta perché la grafite vi scivoli come in una danza – ci hanno raccontato di boschi che pur non cedendo mai alla facile tentazione estetica della favola ne possedevano intatta la portata onirica. Erano boschi possibili, ma non reali. Frutto di una stratificazione di ricordi e di emozioni, archetipo di quello che nella nostra mente si forma alla parola “bosco”. Il suo era un gioco leggero, che si dispiegava tavola dopo tavola e ci accoglieva, ci invitava, ci seduceva con discrezione. I trittici e le installazioni, che si levavano dal pavimento e ne spezzavano la continuità come quinte, ci attiravano con un gioco squisitamente concettuale a entrare nel quadro. Uno dopo l’altro, uno simile all’altro, come frame di uno stesso video girato in un giorno d’inverno, o di tardo autunno, intonavano un canto corale; mai ripetitivi, sempre nuovi eppure famigliari, rassicuranti. L’artista non chiedeva allo spettatore null’altro che uno sguardo partecipe. Ci preparava.

Ora, nei nuovi lavori in mostra, nel dialogo serrato con la pittura di Jernej Forbici comprendiamo di colpo il senso di ogni cosa. Di ogni frammento, di ogni sentiero e di ogni macchia di muschio sul terreno brullo. Se da un lato l’invito si fa ancora più seducente – viene da dire quasi più femminile – nella grande installazione di sospensioni cilindriche, che con il loro andamento curvilineo spingono lo spettatore a girarvi intorno, ad esplorare sentieri ancora non battuti, dall’altro il messaggio salta all’occhio più che mai nel gioco di specchi con la pittura densa, intensa, intrisa di echi antichi del collega e compagno di vita. Ed è un messaggio di quelli che non si possono ignorare.

Non si sostanzia di sussurri, la pittura di Jernej Forbici, ma di clamori travolgenti: marea montante di colori intensi, caldi, bruni e verdi accesi da fiammate color sangue. Anche lui segue da anni un filone forte al quale è rimasto fedele. Anche lui ha fatto della natura il suo soggetto privilegiato. Ma la sua è una natura violata, ferita. Nato in Slovenia, a Maribor, da bambino giocava nelle campagne fuori dalla città. Erano boschi e prati di una bellezza conturbante. Come spesso accade, del resto, che la bellezza corrotta sia. Poco lontano da lì, a Kidricevo, una fabbrica di alluminio inquinava irrimediabilmente tutta la zona, facendo sì che il colore delle acque virasse in tinte assurde, incredibili, che il giovane Jernej non avrebbe mai più dimenticato. La natura si guastava, moriva a poco a poco in una lenta agonia venefica, e in quella agonia, come in un canto del cigno, splendeva di una bellezza malata. Quella bellezza ha continuato a cercare e a donarci Forbici nei suoi dipinti grandiosi, monumentali anche quando la tela si riduceva a una minima finestra quadrata di venti centimetri appena. Monumentali in virtù di quel respiro poderoso che ci portavano. Intrisi di un lirismo di sapore neoromantico, i suoi paesaggi ci conducevano verso la consapevolezza. Sul fondo, la natura vibrava materializzando orizzonti incerti che facevano pensare alle finestre che si aprono sulle campagne sconfinate alle spalle delle Vergini del Cinquecento. Poi, man mano che si avanzava verso il primo piano, il procedere pittorico andava facendosi sempre più intenso e urgente, sempre più gestuale. L’orizzonte alto concedeva poco spazio al cielo, lasciando che a invadere la tela fossero le distese di campi coltivati, qualche scorcio di bosco e poi i fiumi le cui acque portavano veleni che lui traduceva in graffi di un rosso intenso, in ferite sanguinanti. Un unico incantevole fraseggio pittorico alla base di una produzione copiosa, coerente e riconoscibile eppure mai uguale a se stessa; una narrazione con un finale che pare scontato, ed è un finale tragico.

Come se oramai fosse stato definitivamente scacciato da un Eden che non ha saputo meritarsi, l’uomo in questi dipinti lascia di sé solo il segno sciagurato del suo passaggio: non appare mai. Ed è in questo momento, mentre ci impadroniamo di tale consapevolezza, che improvvisamente comprendiamo la chiave di tutto quello che oggi, insieme, Marika Vicari e Jernej Forbici vogliono dirci. Già, perché non solo nelle tele di Jernej, l’uomo ha lasciato il segno del proprio passaggio, ma anche in quelle di Marika. Che cosa significherebbero, altrimenti, quei sentieri così ordinati tra i tronchi, quelle vie già segnate certamente da decenni, forse da secoli, di orme umane che le hanno percorse? Ma allora è questa la soluzione? Cercare di meritarsi di essere ammessi – di nuovo – dentro ciò che abbiamo contribuito a distruggere? Sì. L’uomo può solo fare ammenda, dunque. Ritrovando la dimensione più autentica di sé, quella dell’abbandono alla natura, alla sua fruizione più libera. Addentrarsi nel bosco senza più cercare di farlo proprio ma facendosi – lui – bosco, foglia, tronco, radice e muschio.

In una tela gigantesca Jernej Forbici ci mostra quello che potrebbe accadere, quello che gli scienziati paventano: il surriscaldamento globale ha ridotto la tavolozza a una monocromia spenta, seppiata, al colore mortifero della consunzione. I veleni che sembravano accendere il bosco di un fuoco rutilante si sono dimostrati per quello che erano: il belletto sul volto di un cadavere, destinato a sciogliersi orribilmente nella decomposizione. Sul pelo dell’acqua galleggiano forme ostili, forse rifiuti. Anche le vibrazioni che l’andamento trascinante della pennellata sapeva regalarci sono ora spente. Ma poi, più in là, ecco un’altra tela, ecco che i colori si riaccendono, si risvegliano. E non sono più i graffi acidi del veleno, questa volta, ma i primi segni di una redenzione possibile. Una rinascita che prosegue tra gli alberi pacificati di Marika. E anche qui, in una delle tavole più nuove, appare l’incanto di una nota di colore. Inedita, per l’artista, ma irrinunciabile in questo ritorno alla vita.

Sotto i piedi, lo scricchiolio delle foglie ci accompagna in questo viaggio sensoriale. Un vento leggero e tiepido ci muove appena i capelli. Trasformando la galleria in uno scorcio di bosco, Marika e Jernej vogliono semplicemente dirci che la natura è ovunque la si voglia cercare. Il loro canto, accorato come una preghiera, suggerisce che una salvezza è ancora possibile, e ci chiede di accoglierla.

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Marika Vicari, Tempo degli alberi, 2015

Jernej Forbici: (Maribor, Slovenia, 1980) Ha studiato al College for Visual Arts di Lubiana. Si è Laureato con lode in Pittura (cattedra prof. Carlo Di Raco) all’Accademia di Belle Arti di Venezia, cui è seguita la Laurea specialistica in arti visive e discipline dello spettacolo. Dal 1999 il suo lavoro è presente in numerose mostre personali e collettive in diversi stati europei, negli Stati Uniti, Canada, Argentina e Cina. I suoi lavori fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private. E’ stato invitato a partecipare alle Biennali: Hicetnunc, Pordenone (2003), IBCA Biennale internazionale d’arte a Praga, Padiglione tedesco (2005), Accade, 51°Biennale di Venezia (2007), 53° Biennale di Venezia, Padiglione Italia – Accademie (2011). Nel 2009 la stessa Accademia di Belle Arti di Venezia gli ha dedicato una retrospettiva ai Magazzini del Sale, curata da Carlo Di Raco. Nel 2011, dopo aver pubblicato la sua prima monografia e presentato cinque retrospettive in Italia e Slovenia, è stato invitato a partecipare alla mostra Il fuoco della natura a Trieste. Nel 2012 vince una borsa di studio dal Ministero della Cultura Sloveno e viene invitato in residenza a Londra, dove si dedica allo studio dei maestri inglesi. Vive e lavora tra Kidričevo, Ptuj (Slo) e Vicenza (I).

Marika Vicari: (Vicenza, 1979) Diplomata con lode in Pittura (cattedra prof. Carlo Di Raco) all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 2003, si è laureata nel 2005 in Progettazione e Produzione delle Arti Visive alla Facoltà di Design e Arti, Università degli studi di Architettura di Venezia. Ha studiato e lavorato su progetti site specific con artisti, curatori e fotografi internazionali tra i quali: Hans Ulrich Obrist, Lewis Baltz, Guido Guidi, Mona Hatoum, Antoni Muntadas, Armin Linke e Angela Vettese. Dal 2000 ha all’attivo numerose mostre personali e collettive in Europa, Stati Uniti, Messico, Brasile, Canada e Cina. Le sue opere figurano in collezioni pubbliche e private in particolare in Europa, Canada, Stati Uniti ed Emirati Arabi. Del 2008 è l’incontro con Ermanno Olmi per il quale realizza una cartella calcografica con tiratura. Una sua opera viene scelta e consegnata dalla Citta di Asiago quale premio per il Leone d’oro alla carriera. È costantemente presente in fiere d’arte in Europa e Canada.

 

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Scheda Mostra

Inaugurazione: Sabato 16 gennaio 2016, dalle ore 18 alle 21

Periodo: 17 gennaio – 5 marzo 2016

Artisti: Jernej Forbici e Marika Vicari

Luogo: Punto sull’arte, Viale Sant’Antonio 59/61, Varese +39 0332 320990 | info@puntosullarte.it | www.puntosullarte.it

Orari: Martedì – Venerdì: h 15-19 / Sabato: h 10-13 e 15-19 / Domenica 17 e 24 gennaio: h 15-19

Catalogo: Testi critici di Alessandra Redaelli; Edizioni Punto sull’Arte

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