Le possibilità dell’epos: ‘Suite Etnapolis’ di Antonio Lanza.

Tratesto

Alla poesia degli ultimi decenni, e in modo particolare a quella di inizio secolo/millennio, ciò che solitamente si rimprovera è una scarsa aderenza alla realtà. Da non confondere, quest’ultima, con il realismo minimal di tanta (molta, troppa) poesia che nei fatti fa a gara con il continuo aggiornamento di stati e storie ‘social’. Quello che sembra mancare, in questo scorcio del nuovo secolo/millennio, è dunque un logos poetico che, sostituendosi alla chiacchiera feriale, sappia intercettare questa realtà in continua definizione a cui donne e uomini a tutte le latitudini del globo non smettono di rivolgere una ineludibile domanda di senso. E la questione, certo, non concerne solo un mero livello linguistico; tale logos dovrebbe sorgere infatti a partire da una predisposizione meno miope e ombelicale, ovvero da una partecipazione diretta – nel senso di corporea e non virtuale – del soggetto all’interno di uno spazio comunitario. In altri termini, ciò che si vorrebbe scardinare è il dominio del poetico a vantaggio della poesia.

E cosa c’è di meno ‘poetico’ e di più vicino alla realtà di tutti i giorni di un centro commerciale, si chiede e ci chiede Antonio Lanza con la sua Suite Etnapolis (Interlinea, 2019), libro che invece vuole perseguire un discorso dove la poesia è il mezzo che permette alla realtà di squadernarsi davanti ai nostri occhi con tutte le sue contraddizioni. La risposta è proprio Etnapolis, gigantesca area commerciale alle pendici dell’Etna che ha già nel nome la misura dello spazio-mondo, anzi dello spazio-universo che tutto ingloba. «Etnapolis di etnapolis, tutto è etnapolis: / non c’è centimetro o angolo / a Etnapolis che non sia etnapolis» (p. 11). Del concetto ellenico di polis – già nel nome una strizzata d’occhio al consumatore-cittadino – rimane qui solo l’idea dell’assembramento e non della dimensione assembleare, di una folla di individui, più che di una società, raccolta in un perimetro in cui i confini tra Agorà e Postribolo, Santuario e Teatro vengono a cadere. Il centro commerciale descritto da Lanza è un cosmo in sé concluso che riproduce, su scala ridotta, le nevrosi e le necrosi dell’occidente tardocapitalistico; in esso tutto è finalizzato al consumo e volto alla «conta del profitto» (p. 17) il cui Logos è quello degli zeri moltiplicati per altri zeri. E anche la Legge mosaica, della religione del Padre, viene sostituita con un surrogato che ha una voce androgina, educata e suadente (ma non per questo meno categorica), che esce dagli altoparlanti per imporre la propria presenza ‘divina’ agli acquirenti.

A questo proposito ci sarebbe da rilevare un sottotesto biblico che attraversa le pagine della Suite di Lanza e che agisce nel testo come un contrappunto ironico-drammatico. La ragione espressiva è quella, evidente, di creare un attrito tra la religione del Dio rivelato e quella del Moloch Etnapolis. Basti dire, a questo proposito, che la stessa scansione del tempo, schiacciata sull’eterno presente del consumo, ricorda il “lavoro” settimanale della Creazione biblica (dalla Domenica al Sabato), con tanto di giorno di riposo che però, molto più laicamente, cade qui di mercoledì. Ma se di creazione si può parlare, essa, come è abbiamo detto, pertiene alla sfera di Mammona, alla ri-produzione incessante del capitale. Etnapolis è un universo che si genera continuamente alimentando così un vuoto da “arredare” (manco a dirlo con suppellettili acquistate negli stores dell’enorme Mercato). Questo perché non esiste alterità a Etnapolis. Fuori dal suo perimetro si estende il regno di un Non-Essere commerciale, e quindi irreale e angosciante.

Risucchiati dal buco nero Etnapolis, ci siamo accorti però di non aver detto niente riguardo alla Suite, che del centro commerciale catanese è coscienza e rappresentazione poetica, correlativo musicale che, con le sue variazioni repentine di ritmo, fa da specchio al suo ordine babelico. La poesia di Lanza procede infatti per continui cambi di registro, per scarti, per inserti dialogici che sfrangiano quello che a tratti è un tessuto lirico tout court e in altre occasioni palesa una compattezza poematica e prosastica a cui non sono estranei financo i modi della trascrizione da media orali o audiovisivi. La Suite di Lanza ha quindi la pretesa di inglobare il mondo che essa stessa rappresenta: «piàcciati entrare intera nel mio canto, / le luci come l’immondo» (p. 34).

Se dunque è questa la realtà che ci mette davanti Antonio Lanza, a questo punto dovremmo chiederci, e siamo tenuti a farlo, se può mai esserci una via di fuga. Nell’ultimo giorno, il Sabato, irrompe nello spazio di Etnapolis un cervo che con la sua presenza surreale sembra rovesciare la logica mortifera del Centro. È chiaro, forse fin troppo, la valenza simbolica e salvifica che Lanza conferisce a questa apparizione; questo cervo rappresenta quello che nella tragedia classica era il deus ex machina, l’elemento imprevisto che alla fine risolve il conflitto dell’azione drammatica. Noi però preferiamo ritrovare, tra le pieghe del testo, un’altra possibilità d’uscita da questo spaziotempo asfittico, forse meno letteraria e sicuramente più impegnativa da realizzare. Essa richiede infatti la fatica della relazione libera tra le donne e gli uomini che intorno a Etnapolis intrecciano le loro vite precarie e sfruttate: Laura di Loveable, Vanessa di Father and Son, Alfredo il barista, Daria la cassiera, Cinzia, Samuele, Nuccio la guardia giurata. Sono loro i protagonisti della Suite; a loro appartengono gli sguardi e le voci attraverso cui entriamo nel mondo esploso di Etnapolis. Queste singole esistenze sono schegge che, messe insieme, compongono un «esteso epos / di racconti» (p. 119) che ha il peso della testimonianza nel mare della Storia. In queste vite che potrebbero essere la nostra, e che forse lo sono, possiamo riconoscere quel principio che sempre unisce i corpi e le anime; quella forza ferocemente primitiva grazie alla quale si ha il coraggio di scommettere, ancora, sull’uomo e sulla possibilità dell’amore.

Tornando da Etnapolis dove prima
mai la morte avevo colto che ride
aggirarsi in così mosse visioni,
(saltellare da un carrello
ad un altro, scancellare facce preda
di organismi a poco prezzo,
acquattarsi agli angoli di compiacenti
specchi in camerini stretti come bare
verticali o, ancora, camuffarsi
nel bacio che disperato o no riempie
tempo e attesa su scale poco mobili)
volgo il pensiero all’imprevisto:
un mezzo pesante che sbanda e dritto
corre a macinarci ossa e lamiere.
Ma mi aggrappo alla carne della tua coscia,
e nel buio dell’abitacolo ti chiamo
vita! tirandoti via da vuoti cui
a volte, in segreto,
anche tu ti affacci, forse.

Così riconduco a casa
stanchi provati felici
i miei nervi.

 

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