«L’etica del sangue» e della parola: Black Sicily di Fernando Lena

[Tratesto]

 

Terra contraddittoria e di eccessi, la Sicilia si manifesta, allo straniero così come ai suoi figli, con la violenza di una luce che si abbatte su oggetti, paesaggi, persone, stati d’animo; quasi a voler deformare con ciò i tratti della realtà, ovvero imprimendo un marchio che, come ci insegna Bufalino, ha in sé un rovescio mortifero. Sulla scorta del grande scrittore di Comiso, il suo compaesano Fernando Lena in Black Sicily, edito per i tipi di Arcipelago Itaca (2020), si confronta con questa matrice luttuosa dell’isola risolvendo cromaticamente – nel nero del titolo – le aporie di una luce che ha i connotati di una ferita, di una chiamata scandalosa che riporta il poeta al senso del proprio destino, della sua parola. E la parola di Lena – precisa, dura, affilata ma al tempo stesso capace di aprirsi a improvvisi scarti semantici fin quasi a diventare visionaria – è una fessurazione, è la crepa che insidia questo black che è, prima di tutto, un colore dell’anima. Se la luce riesce a passare, sradicando un dolore millenario e metafisico, prospettando quindi uno spiraglio di infinito, è grazie alle parole del poeta: «nel nero confuso di tutta quest’isola / la gioia era pungere quel frutto di bacardi / per andare su di giri in prossimità delle stelle: / […] / e nessuno grida più “tutto è black” / come quel soldato americano / […]. / E l’isola, il suo vento strano / che a volte ti picchia nella solitudine / sollevando ciò che credevi / fosse radicato nel dolore e invece / anche il più piccolo delirio / può raggiungere l’infinito» (p. 54).

Ma dove risiede esattamente il “cuore” (per dirla con lo Sciascia poeta) della Sicilia di Lena, la quale corrode ironicamente un immaginario da cartolina («E se fosse per noi / Dio starebbe bene / con un doppiopetto gessato / come nei film di Coppola»; p. 48) e non risparmia la crudezza realistico-cronachistica di certi dettagli? Se dovessimo rispondere, diremmo subito, senza esitazioni e seguendo il suggerimento dello stesso autore: in ciò che vive ai margini, nell’ombra, nell’invisibile (connotato socialmente dalla classe borghese) che è sinonimo di esclusione e condanna morale. Da questo punto di vista Black Sicily (l’inglese non è un vezzo ma una presa di distanza, anche ideologica, dall’isola) viene ad essere il canto di un fallimento in perenne riscatto; un campionario di personaggi falliti, laterali, borderline, “vinti” come direbbe Verga, è quello che sfila infatti nelle pagine del libro (ex tossici, omosessuali, spacciatori, delinquenti piccoli e grandi). A queste figure Lena sembra essere legato per ragioni di «sangue», cioè proprie di una familiarità ancestrale e indissolubile che ha i segni del destino («a sanguinare / ci si abitua presto / tra questi muri a secco»; p. 45). Che sia un sangue che fluisce «come sciroppo d’amarena» (p. 51) per le strade martoriate dagli omicidi di mafia o quello dei prelievi o ancora quello infettato dai “buchi”, esso delinea infatti l’ethos del poeta: «se resisto è per l’etica del sangue» (21).

Il libro di Lena è un lungo discorso frastagliato sull’antropologia siciliana – ravvisabile nelle norme sociali e nei comportamenti, in un gesto come in una parola – e al tempo stesso un tentativo di fuoriuscire da questa logica chiusa. Ci vuole quindi una figura estranea (anche se non meno marginale) rispetto al contesto dell’isola per insegnare al poeta che l’opposto di questa «etica» è una «sopravvivenza» biologica che porta in sé la necessità della parola: «c’è l’etica e la sopravvivenza, / lo diceva un amico zingaro / ogni lavoro è un pretesto per trasgredire / anche scrivere versi / visto che ogni volta io / mi prostituisco al demone, / ne faccio un orgasmo / di questo attorno eccitato» (p. 50). Se è vero che l’«etica del sangue» (siciliana) conduce a un «lavoro», lo è altrettanto il fatto che quest’ultimo, in quanto “fare” – poiéin nel senso più genuino del termine – può divenire, come accade qui, una trasgressione dal codice: la poesia di Fernando Lena nasce da questa contraddizione. Black Sicily è allora l’epos di un uomo che fa i conti con la propria origine, ovvero, come scrive il poeta stesso, «la storia di un dialogo tra il figlio e il padre dentro la storia di un’isola» (Nota dell’autore, p. 71).

Soprattutto nella prima, corposa sezione che dà il titolo al libro, la messa in scena del dialogo figlio-padre sembra riflettere quella “isolitudine” di cui parlava sempre Bufalino e che, per inciso, diviene, in senso ampio, la chiave ermeneutica di Black Sicily. A dividere ciò che il sangue unisce è infatti una distanza come potrebbe essere quella tra due monadi; una distanza che è lo spazio in cui si misura «il desiderio di padre» e che trova riscontro in «due abeti» piantati alla nascita del poeta; presenze, queste, che nel corso degli anni diventano testimoni della separazione tra il destino del padre e quello del figlio. La storia che Lena racconta in Black Sicily, quella personale e quella dell’isola, è già racchiusa in questo testo d’apertura: «I due abeti davanti casa / sono tutto quel che è rimasto / del tuo desiderio di padre, / li hai voluti piantare alla mia nascita / e ora sono quasi cinquant’anni che non perdono un giorno di ossigeno / mentre io di fiato ne ho perso / correndo in direzioni mai soleggiate, / ma al buio ahimè ci si abitua / per quel destino da talpa, / ma più che sottoterra / è stato sotto la pelle / che ho cercato a fondo un mondo / tenuto assieme dalle cicatrici» (p. 13).

Contrariamente a quanto ci riferiscono gli etno-antropologi a proposito del dna materno dell’isola (dall’antico culto della Dea Madre ad altre manifestazioni popolari sub specie muleris), la Sicilia di Lena è una terra orfana di padri, «perché loro a volte i padri / decidono di essere / le braccia inutili di un male / che non avrà un corpo, il corpo di Cristo» (p. 22). Stando così le cose, al poeta non resta che sondare le cicatrici di questo corpo assente in una «Pasqua» dove il figlio si perde dietro una «curva» per morire e forse non risorgere mai più, o comunque non completamente («tra il cortile e il mattatoio / c’è la curva del figlio / che pedala come un invasato / e forse va incontro al suo destino»; p. 25), dal momento che il segno di questa figliolanza è la condanna a non generare, a non diventare a propria volta padre: «Ma se non ricordi / a volte è perché non sei stato / a parte il luogo della carezze / la voce calma di un figlio / che si sarebbe fatto padre» (p. 26); «per fortuna o sfortuna, / io non riuscirò a dirlo a un figlio / e forse per non essere un padre / sarà bello sentirsi morire / senza una mano che ti stringe il sangue» (p. 55).

A questa Sicilia luttuosa e ineluttabile, Fernando Lena, novello Rimbaud, contrappone perciò la sua «dimora» che «sarà ancora una volta / in qualche isola meno spietata / tra i limoni le api in bilico / sul nettare delle parole» (p. 32). È in questo frangente che l’eredità del padre, «l’etica del sangue», si palesa per ciò che è realmente: un (ri)chiamare il figlio alla poesia, alla generazione di una parola che crea. Al netto dei propri errori, confessando di «avere usato le vene come un cappio / e così a forza di strozzarlo troppo il futuro / ho perso quel fiato / che pensavo fosse il nostro» (p. 37), il poeta giunge così a un approdo che sigilla provvisoriamente il viaggio fin qui compiuto, il doloroso percorso esperienziale fatto di «centri» così come di clamorose cilecche «per arrivare al cuore della parola», lì dove si mira «il male / per abbattere il bene / invertendo ogni lessico» (p. 36).

Non a caso nell’ultima sezione di Black Sicily, intitolata non senza ironia C.R.L. (Centro Recupero Luttodipendenti), il funerale del padre coincide con la nascita del poeta: «A mio padre, / il giorno del suo funerale / misi qualche verso / nella tasca della giacca / con la stupidità di chi / desiderava dalla poesia / una forma di eternità / e non mi sono mai chiesto / se ai vermi le parole / piacciono in salamoiate di lacrime / o croccanti di profezie / un po’ fumanti / come dopo i primi / cortocircuiti lisergici» (p. 62). Prendendo coscienza di questa generatività, Lena può riconoscere in questa morte il “luogo” di una comunità (la morte del fruttivendolo, del figlio del panettiere, ecc.) da cui lui stesso, forse per la prima volta, non viene escluso: «e poi muore / una parte di me, mio figlio» (p. 65). In questo passaggio di consegne, da figlio a padre, egli vede allora il senso della sua vita compiersi in una molteplicità «di date / con un inizio e un’angoscia», tra cui spicca senz’altro «quell’alba in cui mio padre / morendo mi disse d’andare altrove»: l’alba finale che ricapitola ogni inizio e ogni fine perché entrambi, principio e conclusione, partecipano al kairos di quella tenue luce che è più forte della «paura di non poterci dire / quanto di umano c’è nel delirio dell’arresa» (p. 67).

 

È un respiro pesante
quello che abbiamo da dirci,
pesante è l’intonaco della stanza
questa pelle di gesso
che come un ventre materno
vorrebbe proteggerci
quando siamo qui a parlarci
dimenticando la vita,
Massimo non vorrebbe capire dice
non vorrebbe intuire che qualcosa
si è rotto, dopo ogni morte
la frattura è un tramonto
che non puoi condividere
è quella giostra dove la sua bimba
rideva precipitata nella felicità
che solo l’aria ti dà
accarezzandoti come un aquilone,
lui non vorrebbe che quella giostra
si fosse arrugginita in una data,
ma noi siamo fatti di date
con un inizio e un’angoscia
e quell’alba in cui mio padre
morendo mi disse d’andare altrove
solo ora capisco che quell’altrove
è la paura di non poterci dire
quanto di umano c’è nel delirio dell’arresa.

 

Fernando Lena, Black Sicily – MARI INTERNI – Collana diretta da Danilo Mandolini. Prefazione di Francesco Tomada.

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