Intervista alla poetessa Letizia Dimartino

letizia dimartino

 “La Poesia è un mistero”

L’attesa “nel dispiegarsi dei giorni”, la muta eloquenza di sguardi vicendevoli, l’altalenare del “tempo che ritorna” colmando, viceversa solcando, intimi “pori di solitudine”, la corposità del pensiero proteso oltre il perimetro della “stanza bianca e nuda”, la prodigiosità della parola “che acquieta le cose immobili d’intorno”. Peculiarità della silloge Ultima stagione di Letizia Dimartino (Giuliano Ladolfi Editore) che, come si legge nell’accurata nota critica di Matteo M. Vecchio, “impone l’ascolto di quella ferita originaria da cui la poesia è scaturita, da cui si ostina – con quella trasgressione che appartiene ai Santi e ai puri – a scaturire”.

Quali i ricordi legati alla sua prima poesia?

“Era notte. Ero sveglia e addolorata. Anzi, disperata. Circa quindici anni fa. Non avevo mai, mai, scritto una poesia. Adesso si trova nel mio primo libro “Verso un mare oscuro”. La feci senza scriverla. La tenni in mente. Breve. Forte. L’indomani la ricordavo ancora. Mi rivolgevo accorata ad un qualcuno. La riportai sul foglio e poi, sgomenta, continuai a scriverne altre. Un dono improvviso”.

Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami) e, più in generale, quali le letture significative per la sua formazione?

“Mia madre, maestra, mi recitava in continuazione poesie novecentesche. In tanti momenti. Io mangiavo, giocavo, e ascoltavo. Spesso piangevo, emozionata. Il poeta amato per primo fu Cardarelli. L’ho sempre letto e riletto. Sì, mi ha formata. Poi Raboni con le Canzonette mortali, bellissime, emozionanti, dalla infinita tenerezza amorosa: come non essere la donna cui si rivolgeva! Sandro Penna, illuminante: quanto l’ho letto in certi mattini in cui solo la poesia poteva darmi conforto…! Patrizia Cavalli, originale, diversa, mi ha aiutato a snellire i versi, a renderli asciutti, privi di orpelli e vocaboli ricercati. Tendo ad alleggerire grazie a lei. La Lamarque: ho portato in borsa il suo libro Mondadori (comprensivo) a lungo. Mi fermavo e leggevo. Ed ero entusiasta. Io ho cercato risposte ai miei dolori e le ho sempre trovate nei versi degli altri. Poi Pessoa, da cui ho attinto tutto il dolore del mondo. E Strand, magnifico in assoluto. Perfetto. E più di tutti la grande Emily. Cui di certo mi ispiro. Anche per simil vita, chiusa fra le stanze. Ma io ho letto molto la prosa, sin da piccolissima. Niente mi è mancato. Niente si è ancora concluso”.

La poesia alla quale é più affezionata?

Amicizia di sicuro. La lessi ragazzina, me la sono portata dietro per sempre.

Si sente poeta? Fosse un si, saprebbe descriverlo questo “sentire”?

“Se sono un poeta? Diciamo che sento di poter dire. Ho ancora tante parole dentro, la necessità in assoluto di dover comunicare. E poi ho momenti bellissimi, li vivo in mezzo ai fatti della giornata, fra le tante ‘cose’ della mia vita. E niente mi ferma. Scrivo in attimi brevi, anche nel tumulto delle incombenze. E non so cosa mi succeda. Nascono poesie che non hanno bisogno di correzioni. Sono subito equilibrate. Le rileggo e sento di non dover cambiare niente. Quel che avviene è un mistero. La Poesia è un mistero”.

Per scrivere in prosa bisogna avere assolutamente qualcosa da dire. Per scrivere in versi non è indispensabile. Qual è la sua opinione rispetto al pensiero espresso da Louise-Victorine Ackermann Choquet?

“Credo invece che scrivere in versi abbia bisogno della spinta del dire. Dire è un bisogno. Dirlo in versi è un grande piacere, qualcosa che non è solo dono o premio. È slancio”.

Ultima stagione. Perché questo titolo?

“Il titolo lo trovo azzeccato. L’ho scelto io. Questo anno è stato pieno di fatti belli e dolorosi. Ma sento anche che sono stati gli ultimi. Tutto quanto succederà dopo, non potrà avere l’intensità di quanto ho trascorso. Le stagioni sono passate sul mio corpo, nella mia mente, dentro, fra viscere e cuore e anche sul balcone, oltre le finestre, là dove la città vive, là dove io non posso essere. Ho nostalgia di quanto è successo, anche se si è accompagnato a periodi di intensa tristezza. Consapevole che niente tornerà. Quando un individuo soffre, è solo e grida e tutto è eccessivo. Ma c’è per fortuna il potere salvifico della poesia”.

“di noi resta la parola che acquieta / le cose immobili d’intorno”, i suoi versi per chiedere: la parola acquieta le “cose” mobili d’interno?

“La parola ha per me avuto sempre una importanza direi enorme. Acquieta l’animo, lenisce tutto, tranquillizza. Le ‘cose’ della mia interiorità ne hanno un grande bisogno. Cerco parole per stare e per vivere. Il mio dentro freme, ho bisogno del concreto, degli oggetti, del quotidiano ma tutto va permeato dalla parola. Purtroppo non sempre essa può giungere”.

Leggendo questi versi si respira il tempo sfuggente, ipotetico, balzante, dell’attesa (“Se io vedessi te / se tu vedessi me / nel dispiegarsi dei giorni…”). Com’ è la sua attesa fuori dalle righe?

“L’attendere è atto costante del mio vivere. Da anni e anni attendo: tutto intorno a me ha un movimento. Io sto a guardare. Partecipo fino in fondo. Ma aspetto. I miei rapporti sono quasi esclusivamente telefonici. Gli altri mi tengono ‘ferma’. Spesso li prego di dare movimento ai miei giorni, esprimo la mia ansia di attesa. L’esasperato bisogno di ciò che smuove. Perché dentro io mi muovo tanto. Queste aspettative sono quasi sempre disattese. E scorrono i giorni, e le stagioni vivono nei loro colori. Diventando ultime”.

La poesia consente realmente di cambiare giorno pur dentro il medesimo spazio?

“Intende dire che uno spazio anche piccolo e breve può contenere il trascorrere del giorno? Certamente, la poesia lo rende necessario, molte volte la sublimazione aiuta questo processo inevitabile. Io riempio lo spazio con i versi, il tempo con le parole. E se il movimento di cui si diceva, non giunge, è perché molti non capiscono che il troppo pieno cui agognano è in fondo un troppo vuoto. Un vuoto che sconosco. Sono una privilegiata, ho la poesia che mi accompagna”.

“le mie parole dense / le tue leggere”, “il freddo per amico”, il miglior setting il suo capitolo?

“Il setting è stato necessario lungo i miei anni, quelli più recenti. Lì le parole circolano, impregnano il vivere, aiutano, anche nello sconforto. Spesso sono accompagnate dal pianto. Liberatorio ma anche doloroso. Scriverne era indispensabile. Come tralasciare questi momenti signifi-cativi e come non riprenderli in versi arrabbiati, fatti di sensazioni complesse. Uscire dal setting per ritrovare la strada e ritornare alla vita normale, fra le cose di tutti i giorni, nella desolazione a volte. E anche nella consapevolezza che i miracoli delle parole non sempre avvengo-no. Perché è così che si vive. Da soli”.

(l’EstroVerso Settembre-Ottobre 2012)

 

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