Il libro cui Gabriella Sica ha affidato il titolo Cara Europa che ci guardi (1915-2015) – Cooper, Roma 2015 – presenta copertina di colore nero opaco su cui è impressa la figura creata dall’artista Monica Ferrando riproducente il Ratto di Europa in uno svolazzo di linee essenziali, bianche. Le copertine, lo sappiamo, esercitano grande suggestione: titolo, colori e grafica della pagina esterna più spessa – involucro e probabile annuncio dei contenuti delle pagine interne – veicolano messaggi non necessariamente subliminali, ma simbolici e metaforici senza dubbio, capaci di far intravedere l’argomento, suscitare curiosità e avviare alla lettura prefigurandone il godimento. La copertina di Cara Europa che ci guardi risuona un verso di Vittorio Sereni da Italiano in Grecia: si staglia candido contro il nero interrotto dalla interpretazione grafica, anch’essa bianca, del mito greco. Ci troviamo davanti a un movimento tra presente – la veste dei caratteri di stampa – e passsato – la rievocazione mitologica -, a un affondo dentro il territorio del nero, quasi fosse una stratificazione geologica o archeologica dalla quale emergono figure psichiche, archetipiche che, conservate entro la cupa densità del colore, ne mantengono il potere, la forza e anche la complessa decodificazione. S’incontrano dunque simboli grafici e due colori che sono polarità l’uno dell’altro, interrogativi da portare alla luce, specchiature di destini in cui nessuno può sottrarsi alla presenza incombente di eventi in cui prevale alle volte la chiarità, il facile percorrere il tempo, altre il potere dell’oscurità, i suoi riti ed enigmi, il dolore che ogni nigredo trascina con sé e impone di avviare all’opera della guarigione, allo scioglimento del grumo che aleggia la morte.
La lettura metacreativa della copertina del libro di Gabriella Sica mi ha accompagnata entro le pagine ritrovandovi il movimento osmotico di presente-passato, la presenza del particolare entro il generale, il sentimento di appartenenza e di individualizzazione al contempo, che erano le premesse-promesse dell’esterno di Cara Europa che ci guardi.: i capitoli riproducono perfettamente l’idea che ha sostenuto l’autrice, ossia poter dire del presente vedendovi il radicamento in certe sorti antiche, in certe problematiche che attraversano i secoli senza trovare soluzione se non alcuni palliativi sempre parziali, temporanei, le forme delle innovazioni che promettono maggiore umanità e ripetono in altri modi percorsi già sostenuti, fatiche fiducie e sprechi che si rinnovano lasciando irrealizzata l’aspettativa, ma con la brace di una possibile e congrua stagione gratificante, la pluralità che necessariamente rimanda alla singolarità quale momento privilegiato in cui si evidenzia tutta l’unicità della persona proiettata sul campo della coralità in cui poter esercitare la cooperazione che produce bene comune: opera virtuosa in cui il singolo può riconoscersi tale e al tempo stesso in relazione all’altro.
Nell’analisi dell’Europa tra il 1915 e il 2015 l’autrice procede secondo una lettura cartografica molto personale, originale e soprattutto toccata dalla grazia di sapersi appartenente a una storia più vasta e al contempo libera di darsi direttrici personali, affini al proprio sentire, alla propria qualità di memoria, in modo che il ricordo non sia un mero passaggio nel vissuto o nel sentito per racconto, ma una vera discesa e risalita nel sentimento delle appartenenze per riaffiorare come Persefone carica delle istruzioni funzionali ad attraversare il mondo senza cadere di nuovo nella trappola di Ade. Per queste letture cartografiche, decifrazioni mappali dalle quali discendono le riflessioni sui nodi energetici della storia, sugli intralci morali che producono regressioni, occorre sguardo acuto, indagatore, che non tema la visione del male, il suo corollario di paura e anche un carattere devozionale, fermo, dedito all’esercizio della compassione che mette in circolo la sostanza virtuosa della conoscenza mediante umanità. Nel riconoscere disastrose modificazioni di territori, intemperanze sociali, politiche e uno stato di belligeranza pronto a deflagrazioni terribili, prossime a scenari apocalittici, dentro la vastità degli eventi storici si muovono vicende di uomini e donne legati dai patti famigliari, dalla terra d’origine, dalle ripercussioni delle scelte non rimandabili, dall’imponderabile e dalle imperscrutabili capacità di resistenza, di ritorno, visione e slancio resiliente verso il futuro.
Gabriella Sica propone con chiarezza in tutto il libro la rilevanza della reciprocità, il concetto di “transito” assegnandolo a una fotografia in cui paesaggio e persone sono a testimoniare il senso sacro dell’incontro, l’aspetto alchemico dell’evento che si afferma come momento privilegiato e al tempo stesso transeunte, in quanto ciò che è inevitabile è lo scorrere di ogni cosa, persino dei sentimenti che, pur restando certi, subiscono le modificazioni che tempo e distanza impongono: «Tre donne indipendenti, emancipate e colte per tre diversi destini. Sono passati più di trent’anni, ma sembrano tre anni o tre giorni, il tempo vaporoso di un destino breve come un sogno.» 1
«Quel destino di spaesamento, il sentimento acuto della perdita e della privazione, l’umiliazione di chiudere in un sacco il passato invisibile ai più, ai limiti della cancellazione, non riguardava solo i poeti ma tutti gli europei, in particolare quelli del sud, gli europei greci e italiani.» 2: in queste parole è vivissima la consapevolezza che tutti, artisti poeti e uomini comuni, si contribuisca alla costruzione della realtà nel suo aspetto storico sociale culturale, che tutti abbiano una percentuale di responsabilità e che nessuno possa dirsi innocente e salvo di fronte ad accadimenti che scardinano la società, travolgono vite. Viene posto l’accento, in un disteso uso della parola come in una serena conversazione colta ma informale, sul valore di essere “presenza” e dunque, più tardi, “testimonianza” poiché è nella natura della humanitas accostare, accogliere e consegnare pensiero e sentimento nella dimensione dell’etica, comportamento pratico che si radica nella frequentazione delle virtù, delle norme e dei valori squisitamente umani, anche laddove sono i territori del libro, molto somiglianti a confraternite in cui «L’importante è il marketing, un premio che tutti denigrano, l’ufficio stampa.» 3
In una nota in cui illustra la nascita e lo sviluppo di Cara Europa che ci guardi, Gabriella Sica dichiara più volte che quanto ha consegnato alla nostra lettura «È un libro», «È solo un libro» 4 aggiungendo in altri passaggi qualche attributo cui sento di accompagnare il mio personale: “è un libro virtuoso”, attribuendo all’aggettivo il senso di ciò che è in grado di muovere, attraverso il retto pensiero, verso la disposizione morale di compiere il bene, prima riconoscendo nella sua esistenza l’intrinseca virtù di migliorare le azioni, le relazioni umane e di riflesso i contesti, i luoghi dell’uomo. Proprio in relazione a questo aspetto tutto il libro è percorso dalla presenza costante di un carattere prezioso che inerisce al talento o all’attitudine all’ascolto, al porsi in osservazione dialogica come fosse «(…) un perpetuo ri-cominiciare (…)» 5 in quanto nel rispetto dell’altro, nell’abolizione del giudizio, nella comprensione delle dissonanze generazionali culturali etniche, si cela l’azione appassionata senza la quale non vi è trasformazione, superamento di ciò che non germina più.
Nel valicare la soglia degli anni qualcosa però continua a essere presente, accompagnarci silenziosamente, non raramente in una dimensione di dimenticanza che, quando accade il momento privilegiato e non richiesto – quello delle parole di Euripide nelle Coefore «Gli dei ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre la via.» – possiamo riconoscere come la costante fiducia che protegge inspira ispira vita e quasi sempre si materializza in un oggetto antico carico di significati, impresso affettivamente: l’omphalos che ciascuno custodisce nel proprio angolo remoto e di cui Gabriella Sica scrive «Dunque è un animale totemico quello che mi è rimasto dall’infanzia, uno spirito canterino e benefico, di gioia e non di dolore, come è invece lo slittino di Orson Welles. Un uccellino che canta per me in silenzio senza battere le ali. Un canto che avevo già sentito in campagna dalla nonna e che devo aver incominciato a pensare (sarebbe meglio dire a sentire) che fosse misterioso e bello.» 6
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1 G. Sica, Cara Europa che ci guardi, COOPER, 2015, In transito. Una fotografia a Todtnauberg, p. 51
2 Ivi, Per l’Europa. Un autocommento, p. 60
3 Ivi, Con i libri in piazza della Ghigliottina, p. 175
4 G. Sica ci racconta “Cara Europa che ci guardi”, Ho un libro in testa, 15 febbraio 2015
5 Ivi, C’è sempre una nascita, p. 287
6 Ivi, La più lontana cosa dell’infanzia. Il dono di Pontassieve, p. 279