Luca Ariano
Homo insipiens
(inediti)
«La morte sopravviverà a metterci in riposo,
a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo;
ma essa non può fare altro che così interromperci,
come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere,
perché in ozio stupido essa non ci può trovare.»
Benedetto Croce
Pochi giorni fa dal treno
– l’ultima volta –
campi spruzzati di neve
nell’illusione d’inverno.
Ora rotaie di nebbia
e in quella bettola
si arrivava in barca:
pare frequentata da Ariosto…
Tasso, ora un menù turistico.
Non sono lontane
le luci della centrale a turbogas
e rimbombano parole:
«E ci fregano sempre!
E ci fregano sempre!»
Vedrai schiere di vagabondi
come una tela fiamminga
ma saranno Uomini marchiati a fuoco,
schiavi di robot…
La città modernissima sarà reperto
di epoche umane:
resti di civiltà come quelle mura
che osservi una domenica di vento
e dal finestrino un cielo arancia
con vista San Luca
nascosto tra cavi e pali,
l’ultimo del tuo lungo anno.
*
“Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…”
Giovanni Pascoli
Febbraio ti illude sempre
quando si aprono le giornate
e pensi sia primavera;
dovresti saperlo
che il freddo con le mattine
brinate è dietro l’angolo.
Non daresti un soldo
al suo quartiere post industriale
di supermercati, a quel parco
che di notte geme di prostitute;
eppure salendo vetrate
il profumo dei gelsomini
curati come un figlio…
Ogni volta come il primo incontro,
quasi per caso scoprire nuovi lembi,
gesti e addormentarsi addosso
come bimbi dopo una lunga partita.
Muoiono tartarughe soffocate di plastica
e il tuo mare non lo riconosci più:
già era diverso – nuove rotte –
da quello che vide Leonardo.
Mai dimenticò rocce, ruscelli, rocche,
quando ragazzo partì per Firenze
deciso a scoprire i segreti della Natura.
*
“I fiori vengono in dono e poi si dilatano
una sorveglianza acuta li silenzia
non stancarsi mai dei doni.”
Amelia Rosselli
Ormai non tolleri più sbalzi
termici e quella primavera
travestita d’estate
che d’improvviso piomba nel gelo.
Pesano quelle sue parole
come marcite prosciugate…
risaie di sabbia e isole di plastica
che galleggiano in mari senza pesci.
Sempre vorresti vederla correre
inseguendo il profumo dei fiori,
accecata dai suoi colori
o da quel bacio per dimenticare
una notte illune troppo fresca.
Ti perderai in qualche rotonda francese,
con il tuo occhio opaco
e la pelle arrossata dai nervi;
la vedi giocare alla diva
ma i suoi versi sono uno specchio
per comprendere il corpo…
una natura lontana colate di betoniere.
Cosa vide da quel balcone?
A tutti disse: «Mi verranno a prendere!»
Negli occhi la morte di suo padre,
la fuga… le parole… la lingua,
una guerra che mai avrebbe vinto.
*
Ormai familiare quel quartiere:
pedali con foga come operai
in uscita dalle fabbriche.
Non ci sono più e ti perdi
tra archeologia industriale e case popolari.
La primavera bagna la tua schiena
e quante volte hai atteso giorni così,
il suo viso dietro la porta
e la casa odorosa di cibo.
Per voi le giornate scie di luci
e inseguite ore come ali di farfalle
o quei fiori che non sai coltivare.
Si posano api su petali di tarassaco,
rugiada di lacrime da asciugare in fretta
e il coraggio prima o poi di vedere
le sue strade, quei luoghi,
varcare cancelli…
Non ti servirà allontanarti da mura
per non scivolare nella sera;
come quel ciclista che dissero
più veloce di Coppi e Bartali.
Fu una caduta? Il ginocchio?
Forse una famiglia da portare avanti
ma di quelle pedalate sui tornanti
non favoleggia più nessuno.
*
“Gli uomini prima sentono il necessario,
dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo,
più innanzi si dilettano del piacere,
quindi si dissolvono nel lusso,
e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze.”
Giambattistta Vico
Piove sulle vostre risaie
e tu ne vedi sempre meno,
come api che non ronzano più
attorno a petali… su pistilli:
scompariranno come creature
di ere geologiche.
In Via del Porto si sparava:
cecchini, gappisti, brigate nere…
dalla Manifattura Tabacchi,
staffette su biciclette
tra proiettili vaganti.
Ti pare di rivedere le loro ombre,
con il tuo sguardo turista:
cosa ne sanno quei ragazzi?
Non hanno nulla da ricostruire
e i loro racconti di lavori a tempo,
contratti a mezze stagioni di acquazzoni.
Piove sulla vostra domenica di tram
e ombrelli, di tetti forati,
la scusa di un’antica farmacia…
il letto stropicciato troppo in fretta.
Conoscono Guido da Vigevano?
Forse il nome di una via…
di una bruschetta in un vecchio locale.
*
Per te l’estate erano le sere
alla Latteria di Silvia
con tuo nonno:
latte e menta, le prime pulsioni,
davanti quella fabbrica
che presto avrebbe chiuso.
Anni sputati di lavoro
in fuga dai campi.
La terra un orto odoroso
di cetrioli e pomodori,
di sedie in strada.
Oggi l’estate un florilegio
di carni mentre vi insaponate
sotto la doccia: pelli profumate
di antichi sapori.
Chissà se davvero Penelope attese?
Ora raccontano un’altra storia,
di chi non sa più aspettare,
come un pacco in arrivo in poche ore
o un taxi robot per ogni meta.
Non troverai la casa di Borges
in calle Tucucán 840… forse una targa,
come quella che vedrà le tue ombre
di tombe o in un temporale improvviso
che infradicia i suoi ricci…
un vestito fiorito di belle stagioni.
*
“Fuggite, e non tardate, al primo sguardo:
ch’i’ pensa’ d’ogni tempo avere accordo;
or sento, e voi vedete, com’io ardo.”
Michelangelo
Il vento che sbatteva le porte
ti ha sempre intimorito
anche questa sera che pedali
in un mulinello di foglie;
cadranno alberi secolari
che nessuno cura più
e un temporale estivo
devasterà campi…
Già i tuoi campi con il nonno
a vedere il grano maturo
da falciare o il riso da cogliere.
Oggi la campagna è una sagra
per ricostruire civiltà e stagioni
che paiono epoche preistoriche.
Vorresti anche tu salire sul calesse
e magari far l’amore dietro covoni,
in un fienile prima di apprendere
mestieri che nessuno sa più fare
come un’atavica paura della terra.
Esploderanno vulcani a cancellare
le ultime tracce di uomini…
costruzioni millenarie,
come il marmo modellato da Michelangelo.
Mai suo fratello capì quelle rime:
per lui solo versi contro natura.
*
“La logica della storia è distruttiva come gli uomini che produce:
e dovunque tende la sua forza di gravità,
riproduce l’equivalente del male passato. Normale è la morte.”
Theodor Adorno
«Tira una brutta aria!»
Ma non è un vento
che annuncia temporali
di fine estate…
chicchi di grandine a devastare
campi quasi incolti.
Vedrai arringare da spiagge
dietro tastiere di telefonini:
passi d’oca e manganelli
forse un vecchio metodo
per rinchiuderti in case
ora demotiche… sicuri
davanti a serie televisive,
comprando on-line.
Quel ritardo un po’ vi spaventa:
«Sarebbe infelice in questo mondo!»
ma quasi ci speri
come un bagno accanto alla pineta:
quanti popoli passarono da quelle terre?
Il tuo sangue non mente,
così come ci credeva Theodor:
«Quei ragazzi non capiscono!»
fu un colpo al cuore un giorno
di vacanza dubitando di aver scritto invano.
*
Ma davvero credevi fosse finita
l’estate? Eppure l’hai cercata
in campi di covoni, in cascine
travolte dalla Storia…
racconti di vite e famiglie.
L’hai trovata in quel piatto di rane?
Sai che provengono dai Balcani
– come dopo una guerra –
e tuo nonno in bicicletta
con stivali, torcia e sacco nero
non lo vedrai più.
Bruciano foreste pluviali
e nessuno bonificherà siti,
stagioni di farfalle.
Ci speravi in fondo di rivedere
l’alba a letto con lei,
la luce filtrata di baci,
il suo volto uno sguardo di tela.
Nelle vene sangue antico
– dicono dell’equipaggio di Enea –
e sulla pelle il riflesso
di pitture rupestri, un verso di Virgilio:
confusa per un incantesimo perduto
nei secoli… tramandato da popoli.
L’intervista
Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia?
Per me la lingua ideale dovrebbe essere quella che uno sente dentro come lingua del cuore, che utilizza quando pensa e sogna. Non importa, secondo me, se uno sia nato in un Paese e poi sia dovuto migrare in un altro. Abbiamo molti esempi in Letteratura, si pensi a Conrad (che non era naturalmente un poeta). Apprezzo sempre tecnicamente le operazioni di chi scrive a tavolino in un’altra lingua, magari reinventandola, in un dialetto che non esiste, ma le trovo sempre operazioni fredde e lontane dal mio sentire. Franco Loi, tanto per citare un grande poeta, compie un’operazione meravigliosa, scrivendo in quella lingua che sente sua senza artifici e costruzioni, eppure è un dialetto che mescola milanese e influssi colornesi, tanto per dire. L’importante che chi scrive sia onesto verso se stesso, la poesia e verso chi vorrà leggere i suoi scritti.
La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
La forma è sicuramente molto importante quando si scrive una poesia, ma non deve essere la sola. Come ho accennato prima, sono importantissimi lo stile e la lingua, però il poeta o chi scrive, deve sempre trovare il giusto equilibrio tra forma e contenuto. Se una poesia è impeccabile dal punto di vista formale, ma non trasmette nulla, è una creazione fine a se stessa, così come l’inverso: un testo molto interessante dal punto di vista della poetica ed emozionale, ma poco curato nella forma, lascia il tempo che trova.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Questo versi tratti da Autostrada della Cisa di Vittorio Sereni (pubblicati in Stella Variabile) per me sono un esempio mirabile di contenuto e forma, di quello che si diceva prima. Vittorio Sereni è uno dei miei poeti preferiti, lombardo come me, nella sua vita ha pubblicato solo quattro raccolte di poesie, già questo, in tempi in cui assistiamo ad un profluvio di pubblicazioni, è una grande lezione di serietà e di rispetto per la poesia. Di Sereni ho sempre apprezzato le sue riflessioni sull’esistenza, il suo tocco malinconico che mi ha sempre aperto spiragli. Immagini sempre molto vivide e una cura del verso invidiabile. Gli strumenti umani è una delle raccolte più interessanti del Novecento. Quanti poeti si sono ispirati a lui? Per quanti è stato un maestro?
Un altro poeta che leggo e rileggo spesso è Giorgio Caproni, così come Pier Luigi Bacchini. Cosa mi hanno insegnato? Sono poeti che anche dopo ripetute letture, hanno sempre un messaggio nuovo, prospettive diverse, subito riconoscibili nel loro stile e inimitabili perché ormai dei classici della poesia e come i grandi classici, non finiscono mai di trasmetterci qualcosa.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
La risposta si presta a riflessioni lunghissime e non voglio certo annoiare chi legge. In sintesi: l’uomo da sempre è stato attratto dalla forma e dal genere poesia, mutato nei millenni, e naturalmente, sempre cercherà di esprimersi in questa forma fino a quando ci sarà la scrittura. Io credo che sia connaturata nell’uomo là dove non bastano altre forme scritte come la narrativa, la saggistica, ecc. L’estremo bisogno di comunicare quello che di più intimo ci muove, (spesso nemmeno noi sappiamo perché) ci spinge a trasmetterlo in versi o in qualche cosa di simile. Qui poi si dovrebbe parlare anche della forma poesia/canzone così gettonata dalla metà del Secondo Novecento, ma il discorso è molto ampio e complesso. Come ho già detto, compito arduo del poeta è trovare il giusto mezzo tra quello che uno sente e come vuole esprimerlo, come uno scultore che plasma il marmo, l’obiettivo è la perfezione e la pulizia del verso.
Per concludere, tra gli inediti che hai scelto di donarci, scegline uno per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha visto nascere.
Pochi giorni fa dal treno
– l’ultima volta –
campi spruzzati di neve
nell’illusione d’inverno.
Ora rotaie di nebbia
e in quella bettola
si arrivava in barca:
pare frequentata da Ariosto…
Tasso, ora un menù turistico.
Questo versi sono l’incipit di una poesia qui pubblicata. Nata durante un viaggio a Ferrara, pochi giorni dopo una nevicata. Dal finestrino vedevo il paesaggio qui descritto e una volta giunto in loco ho visitato i luoghi frequentati da Tasso e Ariosto. Naturalmente non ho scritto la poesia in tempo reale né ho preso appunti di quello che vedevo. Mi si sono accumulate immagini fino a quando, “colmo,” ho dovuto scriverle. Di solito le scrivo su un quadernetto a mano e le lascio lì qualche giorno. Poi ritocco a penna e copio su computer. Dopo un anno, se seleziono la poesia, farà parte della sezione che sto scrivendo e dopo cinque, eventualmente della raccolta. In tutti questi passaggi ci sono ritocchi dei versi: lessicali, di sinonimi, di ritmo, ecc. Dopo cinque anni mi fermo sennò andrei avanti all’infinito.