Nulla di quanto accade è necessario, ma tutto lo diventa una volta accaduto.
Tutto ha una causa, ma ogni causa ha una pluralità di effetti.
N.G. D’Àvila
Il quotidiano disperare e credere, il docile e mai risolto vivere la vita più normale, sono attimi felici ma illusori, nonché testimonianze di poesia.
L’inganno della superficie di Marco Pelliccioli (Stampa 2009, a cura di Maurizio Cucchi), strutturato in tre sezioni a loro volta articolate in brevi capitoli, è infatti un appassionato viaggio tra evidenti fragilità e apparenze da svelare, perché, come sottende il titolo, ogni evidenza, ogni superficie, ha in sé un inganno, un enigma.
Libro di “narrazioni” che accompagnano il lettore “ …in una cornice di paesaggio che è un habitat semplice e umile ….”, come scrive Maurizio Cucchi nella prefazione, L’inganno della superficie è anche un libro di presenze fragili e schiette, come l’Angiolina che, con il suo imprescindibile articolo determinativo che precede il nome, quasi a sottolinearne l’unicità e l’appartenenza sociale, sarà sempre l’inquilina di una casa popolare, affaccendata nei doveri domestici: “ … dire che lei lo puliva sempre bene/ ol büs de la römèta/ anche quando i sacchi erano ingombranti, qualcuno racconta lo fossero apposta, le mani nello schifo, poi a dirotto giù…”. Madre che prepara la cena e “… frigge le cervella” per il figlio; che si affaccia al balcone, lo aspetta, e in questa solitaria attesa Pelliccioli dipana una sequenza quasi cinematografica, un montaggio di dettagli e soggettive, quali le porte murate, i sacchi, i cumuli di pietra ai piedi della via.
L’Angiolina è anche il suo quartiere, la sua provincia di ringhiere, di ponti: “…Più in là il Lambro in piena appare, il/campanile suona, anonime le genti, aloni di/ richiamo, incerte fedi e case ora disabitate./…” È la donna sfrattata, estromessa, esiliata. Il poeta si prende carico della sua “roba” e i versi passano e ripassano come carriole, ora piene ora vuote: “ … (nastri, cartoni/trapani, martelli/ bracci meccanici nei pressi di…)”. Nomi/oggetti, scolpiti nella loro nudità di cose che sono anche gesti e sguardi arricchiti da quelle tenerezze e incomprensioni che rendono più autentico l’esistere.
Non mancano figure mitiche, testimoni di un qualcosa che ci precede e ci sorpassa. Tiresia, l’indovino che conosce gli opposti, si presenta senza enfasi, smitizzato, uomo comune. Amorevole e paterno, nell’unico testo del capitolo La madre, ci conforta con parole sibilline che sembrano alludere alla poesia stessa, all’urgenza di un colloquio “basso” con la realtà, di conseguenza, con il lettore: “Ora non siete più soli/ della parola, adesso; è il tempo; l’occasione”. Il ritmo del testo è sospeso, volutamente frenato.
In alcune poesie l’uso dei puntini di sospensione crea attimi di vuoto, lacerazioni. Il testo, allora, si rivela come parte, frammento da completare: “ nel corridoio verde/ luce bianca, neon/ a intermittenza/ prima/ ……………………../……………………../”
Non mancano visioni “naturali”, minime, dove il dettaglio si carica di stupore svelando così l’inganno di quella superficie che da sempre l’abitudine nasconde.
Nella sezione Oltre la siepe, il cui titolo stesso rimanda non solo alla famosa siepe leopardiana, ma soprattutto al desiderio di andare fisicamente “al di là” dell’elemento noto, il poeta si concentra sulle piccole vicissitudini del visibile. Il verso si distende purificandosi in una maggiore linearità. L’elemento fonetico si addolcisce e la punteggiatura suggerisce pause leggere, sospirate: “ Piccola foglia d’autunno minuta, venata di ciglia/che sbattono appena, sciogli la nebbia che scende la/ sera svelando parole sul Lambro di pietra./”, e ancora : “Frusciano, oltre la siepe, il muro, stormi di abeti, / pini, flauti e forse giochi, antichi, regali.”. L’elemento sonoro si arricchisce e si completa in delicati accordi.
L’inganno della superficie indaga anche il drammatico affossamento del linguaggio ad opera di chi, per dovere, dovrebbe farne un uso responsabile.
Sono ormai di moda, non solo nel parlato, ma anche nella lingua scritta, inutili anglicismi – e non solo – che massificano l’espressione, facilitano gli automatismi e inaridiscono la capacità critica a vantaggio dei luoghi comuni. Banalizzazione imposta dai mass media, dall’apparato più commerciale, aziendale, che stereotipa e sterilizza.
Nella sezione Nuovi Vocabolari, infatti, strutturata in diciassette brevi prose poetiche, Marco Pelliccioli, agendo dall’interno attraverso un abile gioco di mimesi e “incastonature”, mette a nudo questo triste processo di impoverimento. Le frasi sobbalzano e inciampano rivelando il lato più ridicolo di una certa “modernità”: “L’uomo, alla porta, sbuffa la farina caduta sul grembiule, non conosce “early adopters”, plance, processi di validazione.”. E ancora: “ Discorrono al “round – table” dei nuovi risultati: l’affinità del “talent”, il “mood”, i “follower”, i “fan”, “l’abstract” della strategia.”
“… ci vuole coraggio per fallire/ commozione per scrivere qualcosa.” dice ancora l’autore chiudendo il primo testo del capitolo Crolli. Come a dire: la poesia non è mai tranquilla e la superficie delle cose è una patina ingannevole.
Prendiamo un foglio di carta, stropicciamolo, accartocciamolo e ristendiamolo sul tavolo. La superficie, fino a poco prima così piatta, ora mostrerà picchi e gole, ombre e mezze ombre, alture e capovolgimenti.
L’inganno della superficie esorta il lettore a una maggiore spregiudicatezza in vista di una più chiara partecipazione alla vita e al linguaggio che la rappresenta.