Maria Borio, “la poesia è una forma di pensiero emotivo: un modo per unire empatia e riflessione, affetto e concetto”.

Raccontano la trasparenza: il puro («Sapersi avvicinare. / Così vediamo l’enigma della distanza / dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato»), l’impuro («Le vite disarmate continuano la caccia / nella voce registrata, nella foto che cancella / la voce, nelle lettere che cancellano il corpo») e il trasparente («Il cielo preme su tutti, le solitudini esplodono»). Rispettivamente: tesi, antitesi e sintesi. «La sintesi del mondo digitale è il ‘grande vetro’ attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’umano e il non umano, la velocità e la prospettiva. L’uno altro limite dell’altro», chiarisce Maria Borio (nella foto di Dino Ignani), autrice di “Trasparenza”, edizioni “Interlinea”, serie “Lyra giovani”, a cura di Franco Buffoni. Sotto il cielo che «si contorce», si accende la ricerca di significato dell’esistenza, delle relazioni. «Vite in frammento», individualità consumate, «lingue mescolate», effimero, solitudine, silenzio, vuoto, non appartenenza, indistinzióne, «fine delle parole», assenza di introspezione, sottrazione di senso della realtà, «accecati dalla luce digitale». Versi scandaglio di un mondo rimpicciolito in figurazioni, diviso, sottomesso, smarrito. È una lettura infrangibile, densa di rimandi e quesiti come specchi, uno dei quali giriamo al lettore perché, con noi, vi si possa riflettere, «Immagini / che questo / possa guarire?».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Ho vari ricordi legati alle prime poesie, di cui uno è il più forte: custodirle, non voler esporle. Sono state alcune persone a mettermi sulla strada, a farmele pubblicare. Come posso chiamare queste persone? La parola maestri deriva da magis, che vuol dire “più”: maestri sono coloro che, in un modo particolare, possiedono un’abilità o una conoscenza, e che riescono anche a trasmettere o a tirare fuori da te un “più”. Penso che senza un confronto con quel “più” tutto ciò che possiamo scrivere e dare attraverso la scrittura resta molto limitato. L’idea di poter bastare a noi stessi, come autori e come uomini, di non aver bisogno di confronto, di relazioni, di maestri, è un’illusione. Chi scrive con coscienza non basta mai a se stesso. Dovrebbe ricordarlo anche chi fa politica, specialmente oggi: l’agire con coscienza. Se dovessi pensare a un aneddoto, potrei parlare di una scena come questa: qualcuno, che sembra credere in te, ti suggerisce un nome nuovo e da quel momento in poi, per tutti, tu sarai quel nome – ma sarai anche più consapevole: perché rinunciare?

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Vittorio Sereni. Lo considero il più grande poeta italiano del secondo Novecento, uno dei pochi che ci ha lasciato una poesia che può rappresentare un immaginario da cui anche un autore non italiano potrebbe attingere. Ha un respiro amplissimo. Gli strumenti umani e Stella variabile sono libri incredibili. Mi interessa anche Amelia Rosselli: non tanto per lo stile, ma per le riflessioni sul ritmo della poesia e perché il suo immaginario è vertiginosamente prensile. Gli autori da cui mi sento abbracciata sono quelli che sono riusciti a rappresentare la complessità dell’esperienza e a proiettarsi in una dimensione collettiva: fra questi, anche Iosif Brodskij e Wallace Stevens.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

I lettori non devono accontentarsi, devono chiedere alla poesia una visione, devono mettersi in gioco profondamente, devono pensare. Che cosa ci resta se c’è solo una bella forma e un bel racconto, senza intelligenza? Quale profondo piacere se ne trae alla fine, quale avventura, che cosa resta davvero? Solo gli autori che ci spingono a rispondere a queste domande vale la pena che siano letti, ascoltati, e non devono essere dimenticati.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

La notte.

Qual è la tua ‘attuale’ ‘spiegazione/definizione’ di poesia?

La poesia è una forma di pensiero emotivo: un modo per unire empatia e riflessione, affetto e concetto. La poesia assomiglia a un oggetto di vetro: il vetro si forma con la sabbia e il fuoco, la sabbia è come le parole e i pensieri, e il fuoco è come l’emotività, la passione, il ritmo che li fonde. Credo che una poesia dovrebbe essere anche una forma di pensiero critico nei confronti di ciò che ci sta intorno, un modo per leggere con più coscienza la realtà. Questo accade solo in pochi autori. Ma è questo che i lettori, se vogliono davvero arricchirsi, dovrebbero cercare.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Come quando viene plasmato un oggetto di vetro, nel momento in cui la fusione tra sabbia e fuoco non ha più sbavature, e l’oggetto raffreddando appare trasparente e riflette la luce, così accade con una poesia.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

La parola purezza si presta a molti equivoci. Alcuni intendono la purezza come una specie di lingua dell’anima, un’espressione assoluta dei sentimenti, come se con la poesia si potesse dire ‘Amore’, ‘Gioia’, ‘Bellezza’, ‘Meraviglia’, ‘Tristezza’, ‘Dolore’ con la maiuscola, un linguaggio praticamente sacerdotale. Il rischio è che una simile concezione della purezza più che parlare di sentimenti faccia sentimentalismi e proponga catene di luoghi comuni. Immagini come quelle del vento, del sole, della luna, dell’infanzia o di un bacio diventano stereotipi. È un fenomeno che si verifica in molti testi diffusi ovunque, ad esempio, su internet. Spesso capita di avere l’impressione che, se non si conoscesse il nome degli autori, questi testi potrebbero arrivare da un’unica voce di fondo che sa di melassa o palliativo. Ma una poesia che sa parlare davvero di sentimenti ha un carattere molto più forte, profondo: da un lato mescola ciò che possiamo intendere con la purezza di un sentimento, il suo valore, con la realtà e fa sentire che quel sentimento è parte vera dell’esperienza; dall’altro lato, salva il valore di un sentimento da tutto quello che nell’esperienza potrebbe distruggerlo, farlo passare inosservato, inutile, farlo dimenticare. Sembra banale dirlo, ma il punto cruciale è questo: la purezza va cercata sempre nell’umano, non fuori dall’uomo, altrimenti non ha nulla a che vedere con ciò che viviamo – non ci apparterebbe e non ne avremmo nemmeno bisogno. Ma se un bisogno di purezza esiste, vale davvero la pena credere che la poesia sia solo un territorio immacolato, un balsamo che consola, oppure una specie di sostanza oppiacea? Penso che cadremmo in un doppio errore: che la poesia sia solo lo spazio della purezza e che la purezza sia solo un balsamo, mentre entrambe presuppongono sempre un rapporto con il loro contrario – il puro e l’impuro. All’incirca tra gli anni Venti e Trenta del Novecento c’è stata una poetica chiamata ‘poesia pura’: cercava l’essenzialità espressiva e sosteneva che la scrittura doveva evitare di essere eloquente, retorica e didascalica. Questa idea di poesia arriva dal simbolismo dei francesi, da Baudelaire in avanti, da una concezione alogica e musicale della scrittura. Ungaretti racconta la guerra e il dolore attraverso momenti di illuminazione interiore. Si dice che più o meno tutti gli autori che vengono raggruppati nella poetica dell’ermetismo (tranne Montale, che con l’ermetismo non ha nulla a che vedere) possono essere considerati ‘poeti puri’. Negli anni Settanta, quando esce l’antologia La parola innamorata (1978), quest’idea di purezza per molti aspetti torna a galla. L’antologia propone una poesia ‘rapinosa’ e ‘colorata’ che, concentrandosi sul nostro mondo interiore, porta l’immaginazione in una dimensione sublime e vertiginosa rispetto alla prosaicità della realtà, come in una favola o in un mito (per questo in quegli anni si parlava di ‘neo-orfismo’), decisamente in contraddizione con l’idea di impegno politico e di sperimentazione che molta letteratura tra anni Sessanta e Settanta portava avanti. Allora, considerando la storia della parola purezza, forse oggi potremmo dire che la purezza in poesia riguarda il fatto che la poesia è stata e continua a essere pensata come un’espressione in cui è necessario parlare anche di interiorità, di inconscio, di sentimento, di tutto ciò che non è materialistico, di quell’empatia che non sarà mai riducibile a formule o a tecnicismi? Lo spero.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

“Dunque ti prego non voltarti amore / e tu resta e difendici amicizia” (Vittorio Sereni), “trasparente / se la verifichi, ma tutt’altro che una serena esplorazione” (Amelia Rosselli), “terrò uniti i tronchi della zattera, starò qui, resisterò” (Odissea, V, 361-362).

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal recente libro e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

La poesia si chiama Accoglienza e fa entrare profondamente nel cuore politico del libro Trasparenza, uscito nella collana “Lyra giovani” di Interlinea nel 2019. La raccolta parla dell’esperienza di una persona che nel mondo di oggi ricerca il significato delle relazioni umane, e prova a fissare le scene e le situazioni in cui si manifestano: le comunicazioni digitali, i legami affettivi, ampi spazi percorsi da viaggi in aereo e in treno, luoghi con architetture di vetro che consentono una visione immediata fra l’interno e l’esterno. Il mondo di questo libro è quello della trasparenza. Si sente spesso parlare di trasparenza in politica, in sociologia, in filosofia e non sono poche le pagine dei social network che usano questa parola. Quante volte ci viene chiesto di essere trasparenti? Ma che cosa significa? Immaginiamo un oggetto trasparente: un vetro. Riusciamo subito a vedere quello che c’è dall’altra parte, ma allo stesso tempo possiamo notare delle imperfezioni, tracce di polvere, detriti. C’è una visione immediata, diretta, pura, e c’è una visione con ostacoli, indiretta, impura. La trasparenza è una sintesi tra queste due visioni, è in realtà uno ‘stare nella trasparenza’, così come in ogni relazione umana ci sono aspetti diversi, l’odio e l’amore, il bene e il male: la vita vera è fatta di composizioni, distruzioni e ricostruzioni continue. Pensiamo adesso allo schermo di un computer o di un telefono: in qualsiasi pagina di qualsiasi social network possiamo vedere immediatamente notizie, immagini, mandare all’istante un messaggio, fare una videochiamata con skype o whatsapp. Quando comunichiamo con i nostri schermi digitali siamo tra due sponde, quella dell’immediatezza e quella della distanza, del puro e dell’impuro: siamo nella trasparenza. I riferimenti al modo in cui le relazioni e le comunicazioni si manifestano attraverso le digital humanities sono molto frequenti nel libro e sono una specie di ossatura su cui si incastrano altri scorci: viaggi in aereo e in treno che legano più luoghi in tempi brevi, luoghi con architetture di vetro che sembrano unire nella trasparenza l’interno e l’esterno, situazioni in cui si prova a lasciarsi quasi attraversare dagli altri, a essere insieme, a comprendersi, a sentire la corrente umana che compone le diversità e la complessità della nostra società, come nella poesia Accoglienza. È stata scritta circa due anni fa e cerca di far rivivere i momenti di una mattina di primavera nel quartiere Porta Palazzo di Torino, noto più che altro per i Mercati generali e per il Baloon: è un posto speciale perché contiene l’Europa, l’Africa e l’Asia, è uno dei quartieri più multietnici d’Europa, sembra di attraversare un non-luogo, quasi di essere in una dimensione virtuale perché fa provare esperienze contraddittorie che distraggono dalle nostre abitudini, le scuotono. Si dice che i non-luoghi siano i grandi aeroporti, le grandi stazioni, i centri commerciali, posti di transito senza radici, dell’anonimato, risultato del capitalismo occidentale, ma anche gli spazi virtuali dei social network o la rete dell’e-commerce in cui compri online senza sentire addosso la stoffa di un vestito, senza odorare le pagine di un libro, perfino senza provare con le dita se la frutta è matura. Penso che i nuovi non-luoghi siano quelli in cui di radici ce ne sono eccome, e vengono attaccate, rimesse in discussione, in cui si combatte per il contrario dell’anonimato, per il potere dell’identità e delle radici, per un nuovo modo di essere presenti come parte attiva della società. Luoghi in cui davvero il puro e l’impuro, per usare la metafora del libro, saranno sempre più mescolati e la complessità porterà a delle scelte decisive: dobbiamo lottare perché vengano fatte con coscienza e non con violenza. A questo punto, il titolo della poesia parla da sé:

Accoglienza

I

Si raccontano, una faccia nell’altra.
C’è il pane fresco sul banco, asciutto,

il suono di cose toccate. Dispone
pezzi in fila – le mani sembrano terra,

le unghie sono tagliate fin dentro la carne.
Le storie scomposte in sagome

fanno corto circuito. Attraverso
il vetro appare reale solo la forma

delle magliette made in china.
Come dire posto per accoglienza?

Il cielo preme su tutti, scivolano fuori
dalle magliette i corpi.

II

Parlare, sentire: entriamo, compriamo
due chili di pane – parlare, sentire

le mani calde, gli occhi geologici. Sembra
di attraversarsi, noi nella mattina soli

dal banco al vetro alla strada…
Le aste traslucide attraverso i vetri

sono rami – e il vento
le apre, li chiude.

III

Il nome inizia con la a e finisce con la h
suona una cosa calda, di lievito

ed è vero – la distanza esiste meno
di prodotti che di etnia. La cosa esplode.

Il vento comprime tutti,
finisce con la h, come si soffia.

IV

Sembriamo serpenti, curve, lingue mescolate.
Passiamo attraverso un posto immaginario.

È una sfida, come il ragazzo della favola
nascondeva la volpe tra ascella e fianco.

Il cielo preme su tutti, le solitudini esplodono.
Il posto intorno è vero – i serpenti solo suono.

 

 

Ps. Il ragazzo della favola che nasconde la volpe sotto l’ascella, dal mito greco, è un’immagine simbolica per parlare di chi vuole avere astuzia in tutto. Ma, a volte, la volpe può sbranarci… e attraversare la complessità della vita con prepotenza, ignorando chi abbiamo di fronte o pensando di eliminarlo, può esplodere come quando si prende coscienza di un’illusione. Allora, anche nascondendolo, ci sentiremo irrimediabilmente soli, destinati non certo all’immortalità e sentiremo addosso tutto il peso del cielo.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 17.11.2019, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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