Maria Del Vecchio, “la poesia è un assedio”.

Maria Del Vecchio (nella ph di Marco Di Gioia) è nata a Lucera (Fg) nel 1988, ha vissuto a Roma dove ha conseguito la laurea in lettere classiche. Ha collaborato con la casa editrice Editori Internazionali riuniti. Cura la direzione artistica del “Festival della letteratura mediterranea” e l’organizzazione della stagione teatrale “PrimaVera” al Garibaldi (per la direzione artistica di Fabrizio Gifuni e Natalia Di Iorio). Insegna materie letterarie in un istituto privato. “Arimanere” è la sua prima opera in versi nella quale, come scrive Maria Grazia Calandrone nella prefazione, risalta il ‘verbo’ credere, “Credere all’altro, credere al legame, all’evidenza della relazione, a quello che ci porta fuori da noi, nella terra straniera del respiro dell’altro. E ancora oltre.”, e dalla quale abbiamo scelto i “passi” che seguono per introdurre l’intervista: “Soffro forte, ma il dolore / non ha quantità, come l’amore.”

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Ho scritto la mia prima poesia a sei anni, quando ho imparato a scrivere, ma nutrivo dentro il sentimento di volerla scrivere da prima, direi. Quando alla scuola materna la mia maestra mi chiedeva cosa volessi fare da grande, io rispondevo: la poetessa. Questi sono i primi versi che ho scritto:

Vidi una rosa sbocciare
era l’inizio del nostro amore.
Vidi il sole morire e la luna risplendere
era la fine del nostro amore.
Ma un angelo scese dal cielo
e mi ricondusse alla vita.

Ovviamente le maestre chiamarono preoccupate i miei genitori.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Io ho una formazione classica, dunque le mie ossessioni provengono prevalentemente dal mondo antico. Se dovessi dirti qual è stato il mio primo contatto con la poesia ti parlerei dell’Iliade e di Omero. Sono legata in maniera indissolubile, ad esempio, al personaggio di Andromaca e alle traduzioni dei lirici greci di Salvatore Quasimodo. Mentre invece la mia poetessa preferita è Marina Cvetaeva, ma certamente hanno significato moltissimo per me Leopardi, Amelia Rosselli, Cristina Campo, Sylvia Plath, Raymond Carver, Cesare Pavese, ciascuno in momenti differenti della mia esistenza umana e artistica.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Una domanda davvero difficile, ti rispondo scrivendoti non dei versi completi, ma il mio ossimoro preferito, tratto appunto dal libro VI dell’Iliade, per intenderci, quello in cui si parla di Ettore e Andromaca. Mentre i due si salutano sulle porte Scee, sapendo il destino crudele che spetterà ad Ettore, Omero dice della donna dell’eroe che lei è “dakruòen gelàsasa”, letteralmente significa “piangeva avendo riso”, dunque “rideva nel pianto”. Per me tutta la poesia proviene da quel ridere nel pianto. Una sorta di forza terribile e meravigliosa che muta la vita e le impone una direzione.

Qual è – nell’arco della sua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Scrivo continuamente. Ma i miei momenti preferiti, quelli in cui mi dedico realmente alla fatica della poesia sono la notte e l’alba. Sono insonne, ma utilizzo questa mia condizione per concentrarmi meglio nei momenti di assoluto silenzio della giornata. Credo poco all’ispirazione e dato che purtroppo non ho molto tempo, infatti faccio l’insegnante e mi occupo di un festival e di una stagione teatrale, il tempo corposo e proficuo che resta non può che essere quello della notte e del sorgere del sole.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
La poesia per me è un assedio. Un campo di battaglia in cui mi posiziono per dare un nome esatto alle cose. Carver diceva “le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”. Per me la poesia deve essere coinvolta nelle cose del mondo, deve riuscire a nominarle, a chiamarle ogni volta come se fosse la prima volta, come le chiama un bambino. Marina Cvetaeva scriveva a Rilke in una lettera indirizzatagli dopo la sua morte che “l’irraggiungibile non è mai alto”. Per me significa questo poesia cercare l’irraggiungibile nel reale e saperlo dire.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Quando la lascio andare via, quando decido di scrivere altro.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Direi proprio di sì. Dovremmo parlare di che cosa significa purezza della parola, ma ti direi che per me la poesia dovrebbe avere solo parole pure, parole che siano miti, esempi.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
L’incarico della poesia per me è quello di nominare le cose che vivono, riorganizzarle, dare loro un posto, cercare un continuo contatto con l’umano. Una sorta di miracolo in cui ci spogliamo di tutto e diciamo adesso io posso dire: sedia, cielo, terra, acqua. Rompere il silenzio. Chiamare quel che diversamente non potremmo dire. Ti riporto dei versi di Antonio Santori che spiegano meglio di me quel che intendo:

Dire
Per sempre,
innevato, accanto,
spaventato,
Sono
esistito.

Per questo mentre
vivo tutto mi sembra
innominato.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Ce ne sarebbero tanti, soprattutto delle mie poetesse amate. Ti riporto uno stralcio dei diari di Sylvia Plath, delle parole che avrei voluto scrivere io, avrei voluto saper dire cosi bene lo stesso:

Se non pensassi sarei molto più felice; se non avessi alcun organo sessuale, non sarei sempre sull’orlo di una crisi di nervi o di pianto. Penso che dopo un po’ mi abituerei all’idea del matrimonio e dei figli. Se solo non soffocasse il mio desiderio di realizzarmi in un appagato stordimento sessuale. Certo, il matrimonio potrebbe rappresentare una maniera di realizzarsi, ma solo nel caso in cui la mia arte, la mia scrittura, non fosse altro che una mera sublimazione dei miei desideri sessuali, destinata a inaridirsi una volta sposata. Se solo riuscissi a trovarlo… l’uomo intelligente ma dotato anche di fisico prestante, magnetico. Se io posso offrire tutto questo, perché non dovrei pretendere altrettanto da un uomo?
Com’è complesso e intricato il funzionamento del sistema nervoso! Lo squillo elettrico del telefono trasmette un formicolio di aspettative alle pareti uterine; il suono della sua voce attraverso il filo, aspro, impudente, intimo, mi fa contrarre l’intestino. Se nelle canzonette si sostituisse la parola «amore» con «desiderio», ci si avvicinerebbe molto più alla verità.

Per concludere, ti invito a scegliere (riportandole) tre poesie dal tuo nuovo libro.

Monologo per la mia Andromaca

Io sono la moglie troiana
senza il marito,
la figlia della madre depressa,
qualcuno ha visto il mio Ettore?
Avete notizie di Ettore?
Del suo cimiero chiomato
che ondeggiava terribile
dinanzi agli occhi atterriti della nostra creatura?
Io sono la moglie troiana,
ma non ho partorito.
Avete visto i calzari del mio principe
accanto al mio letto disfatto
dopo una notte di dicembre
in cui ho fatto l’amore?
Io sono la moglie troiana
che sogna il topo
strisciare fra le gambe
degli uomini che ho avuto.
Qualcuno sa se fra questi c’è il mio Ettore?
Io sono la moglie troiana,
mai ho tenuto fra le braccia bianche
il figlio mio.
Quello dell’altra, sempre.
Qualcuno ricorda se ne concepimmo uno?
Io sono la moglie troiana,
con gli occhi spalancati.
Non dormo perché non vorrei
Ettore potesse arrivare
mentre ho le palpebre abbassate.
Se è accaduto, ditemelo:
v’imploro.
Io sono la moglie troiana,
ho goduto nel dirupo
del suo sguardo,
ho creduto.
Io sono la moglie troiana,
ma Ettore non ha mai
abitato il mio letto.
L’ho cercato nell’amaro
delle medicine.
Io sono la moglie troiana,
quando rido nel pianto
e mi volto di schiena
per non trattenere lo sguardo
di un altro venuto
a dirmi:
Sono io, Ettore.

 

Sofforte

Poverezza del mio animo di donna
diavolo della bimba che fui.
Premevo fra le mani
un pastello blu oltremare, amici miei:
Ol-tre-mare.
Adesso le dita mie sanno tremare.
Tremo – perché arriva il solstizio –
ed io ne ho paura nera, brillante.
I miei umori si rovesciano
smagrisce la carne
a nulla serve il pianto della creatura.
Tutto è desolato distacco:
strapparmi pure le viscere
vorrei; svuotarmi
e versarmi dentro di te.
La stanza è già vuota,
abitata dal fantasma che non sono.
Non ritorno
non ricordo.
Io passo, trascorro, attraverso
e mi libero.
Soffro forte, ma il dolore
non ha quantità, come l’amore.
Ti amo o non ti amo.
Non sia mai: ti amo tanto.
Soffro o non soffro,
anzi: sofforte.

 

Arimanere

Se tutte le acque del mondo
volessero piovermi ora
se tutte le acque del mondo
venissero ad inondarmi
io – ferma – non temerei
il diluvio.
Se tutte le acque del mondo,
ma io e te guardiamo la poiana
nella strada che porta
a una casa
né mia, né tua,
né nostra.
Se tutte le acque del mondo,
ma io e te guardiamo la poiana
e prima era stato il falco
quando ancora non sapevo
il tuo dolore,
quando il freddo era
un salasso d’amore.
Sono il cortile soffocato dalle viole
l’alba non si apre dentro di me,
è solo il bastone
che sbarra il portone.
Mi rannicchio, mi chiudo,
le gambe tese emanano strazi
i denti si insidiano
le corde del collo sono pronte
solo per i tuoi baci.
Chi sono stata?
Chi sono?
Chi abitava il vestito
che ora sembra d’una altra?
A chi appartengo,
a quale luogo davvero?
A quale mano di uomo?
Del tempo rintanato
in questo spazio costretto
tu sei il salvatore.
Dilati il respiro
lo segui e lo innalzi
ai disegni delle nuvole.
Manca l’aranceto.
Mancano le tartarughe.
Manca il colle arioso.
Mancano i volti sconosciuti
e le lingue del mondo.
Ma conosco a memoria il vicolo
e l’arco con la malva;
so come la luce s’appiccica
al tufo,
riconosco nel tuo nome
la sedia ancorata al pavimento
della classe;
ascolto un verso, un ritornello
che recita in un fiato solo
arimanere,
a rimanere
a rima nere
ari ma(ni) nere.
Resta una sola mano nella notte nera,
la tua.

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