Maria Grazia Maiorino, “Lo sguardo che si alza”, un sentiero meditativo dentro uno spazio di libertà.

Maria Grazia Maiorino (nella foto di Rita Vitali Rosati), nata a Belluno da madre veneta e padre lucano, dopo aver trascorso parte dell’infanzia e dell’adolescenza al sud, è approdata ad Ancona. Si è laureata in lettere all’università di Urbino con Alessandro Parronchi, scrivendo una tesi sul pittore marchigiano del Quattrocento Lorenzo D’Alessandro. Dopo aver insegnato nelle scuole medie, si è dedicata a tempo pieno all’attività letteraria. Scrive poesie, racconti, saggi di critica letteraria; i suoi testi sono apparsi in riviste e antologie. In poesia ha pubblicato: E ho trovato la rosa gialla (Forum, 1994); Sentieri al confine, nell’Antologia 7 poeti del premio Montale, (Scheiwiller, 1997); Viaggio in Carso (Edizioni del Leone, 2000); Dare la mano a un albero, fotografia e haiku, in collaborazione con Giovanni Francescon e l’associazione L’albero blu (Rocciaviva, 2003); Di marmo e d’aria (Manni, 2005); I giardini del mare, con disegni di Raimondo Rossi (Pequod, 2011); La pietra salvata (Il Lavoro Editoriale 2016); Lo sguardo che si alza (Moretti & Vitali, 2022). Come narratrice ha pubblicato il romanzo L’azzurro dei giorni scuri (Pequod, 2006, Affinità elettive, 2018); i racconti L’America dei fari e Angeli a Sarajevo (Gwynplaine, 2013, 2015), e Frammenti per un personaggio (Affinità elettive, 2019) ; un testo di prosa e poesia intitolato La prima stagione che ricordo è l’inverno-Infanzia bellunese (Affinità elettive 2021). In particolare due antologie, a cura di Cristina Babino, pubblicate recentemente da Vydia editore, la vedono inserita tra le voci femminili e poetiche che si sono distinte nelle Marche negli ultimi decenni: Femminile plurale – Le donne scrivono le Marche (2014) e S’agli occhi credi – Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti (2015, 2022).

“Un destino diverso camminava avanti/ ma un giorno li avrebbe fatti incontrare/ da vecchi riconoscersi bambini/ occhi sempre sgranati sul mistero”, versi scelti dal libro “Lo sguardo che si alza” di Maria Grazia Maiorino – edito da “Moretti&Vitali” – per introdurre la nostra intervista.

 Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Lo sguardo che si alza”?

Non una, ma tante scintille! Tante quante sono le poesie che compongono questo libro, direi, visto che l’immagine della scintilla evoca subito per me l’improvviso venire al mondo, l’apparire di suoni, forse ancora prima che di parole, e il loro inanellarsi in un certo modo, un inizio quasi di canzone, che io stessa accolgo con stupore e che nei casi più fortunati diventa l’incipit di un testo poetico. Solo in un secondo tempo esso entrerà nella struttura di un libro, dove le varie sezioni diventeranno il filo conduttore, come i capitoli di un romanzo. Nel caso de “Lo sguardo che si alza”, ho riunito versi per lo più inediti scritti dal 2016 a oggi, altri già pubblicati in riviste, antologie e blog, e testi meno recenti, rivisitati e inseriti nelle varie sezioni secondo l’armonia di un unico cammino, sia pure variegato e forse azzardato nel suo andare dall’estrema sintesi dei tre versi alla prosa poetica, che io preferisco chiamare scrittura di meditazione.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Credo che fin dall’inizio la poesia abbia dato voce soprattutto a quello che nella vita reale, quotidiana, era impossibile, assente, desiderato; al sogno, all’affiorare misterioso dell’inconscio. E in questo modo la parola è diventata a sua volta vita, quasi la voce di un alter ego più intimo, più vero, colorato, audace, protagonista di avventure, metamorfosi e amori, impensabili fuori da quel giardino, recinto, viaggio e continuo ossimoro che costituisce la sostanza del mondo poetico. Anche quando il dolore sembra destinato a raggelarsi, muto come un sortilegio, la parola trova per me un sentiero di trasfigurazione, di relazione e di canto.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La cura della parola diventa un vero e proprio rito, un esercizio spirituale, l’ingresso in un altro spazio/tempo. L’immagine del ponte che si inarca e unisce mi è sempre piaciuta. L’oltre è la dimensione celeste additata dallo sguardo che si alza e dal dio che scende e si fa radura. Una sacralità che assomiglia molto alla preghiera, anche quando rimane sul piano dei gesti, degli incontri terrestri, delle perdite e delle delusioni sentimentali. In particolare la figura delle mani è a sé, accenno al senso biblico, alla creazione, all’opera divina che porta a compimento, segno dell’accoglienza e presenza simbolica essenziale nella liturgia.

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’«insuperata distanza»?

Più che a colmare distanza e solitudine, credo che la parola venga a consolare, permettendo di disegnare altri scenari, illuminati da barlumi di consapevolezza, quasi prefigurazione di un futuro impensato. La mia poesia è spesso andata avanti rispetto alle cose presenti, a quello che ero in grado di percepire razionalmente, e perciò solo molto tempo dopo si è lasciata decifrare. Una certa oscurità l’accompagna, come l’ombra, anche quando i versi si distendono piani e all’apparenza comprensibili. E qui entrano in gioco il suono, il ritmo, la musica, che è essenziale, come un profumo che tiene insieme le parole, corposo e indicibile, conducendo al di là di esse. Più ascoltabile che spiegabile. Si fa ascoltando e si legge ascoltando. Per questo non ho mai amato mettere troppa punteggiatura nei miei testi poetici, affinché ogni lettore abbia uno spazio di libertà per reinventarseli a suo modo – del resto c’è già la scansione, l’andare a capo, lo spazio che può segnare una pausa più lunga fra una parola e l’altra, e lo stesso spazio bianco della pagina ha la sua importanza per il respiro dei versi.

La poesia ha «un sapore ancora capace/ di infondere quiete»?

Ho tentato di raccontare e far raccontare l’Alzheimer con i versi, anche all’interno di laboratori su “La parola che cura”. Nel libro ci sono tre poesie sull’argomento, la tua domanda prende spunto da quella intitolata Vorrei dirti. Il breve testo mi ha permesso di esprimere ciò che nella realtà mi sono dovuta censurare. Nella prima strofa il racconto di una figlia, parole testuali, nell’altra le parole che non le ho detto: esse cercano soltanto di spiegare che quando le parole solite non servono più rimangono i comportamenti e le motivazioni del cuore, perciò se la persona malata si sente utile magari ritrova i gesti che la memoria ha conservato; il corpo ricorda ciò che la mente ha dimenticato, in questo caso la possibilità di ricordare è affidata alle mani. Ecco il senso di quiete legato alla fisicità/affettività e non più alle parole (a meno che non si tratti del dialetto, e qui si potrebbe aprire un altro discorso, molto interessante!). Un poeta certo può trovare quiete in un testo nel quale dopo tanto lavoro, e a volte dopo anni, si riconosce, ma la sua aura credo sia piuttosto quella dell’inquietudine, che come un vento lo spinge sempre avanti, a tentare nuove strade, incontentabile e spesso esule su questa terra…

E, ancora, con i tuoi versi, «In fondo a un gesto/ vanno a finire le parole», ti chiedo: le parole bastano alla poesia?

Le parole bastano sì e no. Mi è sempre piaciuto l’intreccio delle arti, perciò ogni volta che se ne è presentata l’occasione ho messo in gioco le mie parole con la musica, la fotografia, la scultura, la pittura, e credo che il risultato sia stato uno scambio e un arricchimento reciproco tra le diverse forme di espressione. Per quanto riguarda la lettura in pubblico finché ho potuto ho chiesto la collaborazione di amici musicisti e qualche volta ho affidato ad altre voci i miei testi, ma – attenzione – non parola recitata, ma parola “letta”, mettendo la propria tecnica al servizio del testo e non viceversa. Comunque è sempre bello sentire la voce da cui è nata la parola poetica.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il suono?

Ho risposto già in parte a questa domanda, accennando anche all’uso della punteggiatura. Vorrei aggiungere qualche altra riflessione. La poesia è certamente l’arte del togliere, come la scultura, e richiede un lavoro lungo e paziente, a volte interminabile, una specie di illuminazione quando si riesce a trovare la musica giusta. Esiste però anche una scrittura per così dire “abbandonata”, che da una parte permette di lasciar affiorare la materia grezza, ciò che poi verrà sottoposto al labor limae, ma dall’altra può dar vita a un genere a sé, che è la prosa poetica. Ricordo come rimasi subito affascinata quando lessi per la prima volta Dino Campana: furono una vera sorpresa le città e i paesaggi che si distendevano colorati, vibranti, come uno sfondo di affreschi ai suoi versi. Una sezione do prose poetiche, intitolata “Esercizi”, era già presente in “Viaggio in Carso” (2000). Da qui il titolo di “Esercizi II” in questo libro. Nel frattempo avevo avuto modo di scoprire l’ecfrasi, cioè quel tipo particolare di scrittura che dà vita alle immagini delle arti più svariate, mettendo a fuoco il sentimento e le impressioni di chi guarda, a prescindere dai fiumi d’inchiostro versati dagli specialisti, storici dell’arte, architetti, interpreti di scuole e correnti diverse…. Un vis à vis con l’opera, insomma, lasciando che sia lei a parlare tramite la voce poetica; una specie di flusso di coscienza, un visibile parlare, secondo l’incisiva sinestesia dantesca. I testi Un lembo del mantello e Tra il velo e le mani, sulle due opere di Tiziano che ora si fronteggiano nella pinacoteca di Ancona, sono due esempi di ecfrasi (quella che nella nota al libro ho chiamato scrittura di meditazione).

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Ho sempre creduto nel “laboratorio” e nella trasmissione da cuore a cuore, che ho sperimentato quando se ne è presentata l’occasione. Scrittura e lettura condivisa, anche nel semplice incontro a due, e fedeltà alla lettura individuale sempre. Non si può scrivere senza essere lettori, almeno nella grande maggioranza dei casi, senza avere gli autori preferiti che diventano anche i nostri maestri. Maestri che non hanno nulla di pedante, ma semplicemente ci contagiano con il piacere che ci permettono di assaporare nelle loro pagine, con i mondi e le avventure che ci dischiudono fin dall’infanzia. Compagni e consolatori sono i libri – anche quando ci sembra di aver dimenticato tutto ci accorgiamo che hanno scavato dentro di noi, seminato e fatto germogliare, permettendoci di essere qui e altrove… perché “Ci sarà sempre una poesia dopo l’ultima / una terra di fiori di melo”. 

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “Lo sguardo che si alza” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

 

Deserto

Allentata       anche nei pensieri

stanze vuote       lavate dal pianto

non mi ero accorta di aver corso

tanto       ora riposo in cima alla collina

contemplo un sogno dipinto nella valle

deserto arancio       statua d’acquamarina

che sorgendo dalla sabbia s’inarca

grande roccia istoriata       muto corteo

di donne      senza insegne senza bandiere

                      scala         inventata dal niente

per scendere nell’egitto delle cose

serenamente      come chi è di casa

Ho scelto una delle poesie più “antiche”, un testo per molto tempo accantonato, forse semplicemente perché mancava l’ultimo tocco, la risoluzione di una specie di enigma. E’ il racconto di un sogno ambientato tra la sabbia e le rocce del deserto, sviluppato attraverso tre sequenze/immagini. La prima è la statua di pietra azzurra che si inarca come se stesse risorgendo; essa rappresentava l’altro, l’assente, la relazione spezzata che sembrava potesse rivivere. La seconda è la roccia istoriata, che evoca qualcosa di misterioso, di cui si intuisce la solennità e l’importanza. La terza è il corteo delle donne, al di là delle ideologie, alla ricerca evidentemente di qualcosa di più profondo, che è rappresentato dalle scale inventate per scendere nell’inconscio/egitto delle cose. Ho messo questo testo all’inizio della sezione “Anime”, come tappa di partenza per il nuovo cammino, con una variazione essenziale che cambia tutta la prospettiva della visione onirica, perché finalmente ho riconosciuto nella statua d’acquamarina una figura di me stessa, non più dell’altro – del resto non dice forse Freud che siamo sempre noi i protagonisti dei nostri sogni, anche quando ci ritroviamo camuffati nei più improbabili personaggi? Quindi anche il titolo, che era Acquamarina, é cambiato, diventando una sottolineatura del luogo – lo spazio/tempo del ritiro, del risveglio interiore e della scoperta di nuove relazioni e affondi spirituali. Questa è la via tracciata dal nuovo libro, nel solco di una ricerca ai confini del sacro, come si manifesta nella bellezza dell’arte, nella liturgia, nella natura, nella realtà quotidiana, nelle figure salvifiche degli angeli sempre presenti nelle loro innumerevoli incarnazioni. All’interno della stessa sezione c’è una poesia simmetrica, si potrebbe dire, a quella citata, anche nel colore somigliante, Verdeacqua. Un altro sogno, ma questa volta è un sogno acquatico, una sostanza più lieve, unita al desiderio di “far da guida”, perché l’approdo è a una riva di rovine, ma le rovine hanno il fascino dell’archeologia, quello stesso fascino ritrovato nei vecchi in un passo del mio romanzo L’azzurro dei giorni scuri: “Non credo che i ricordi siano contenuti soltanto nel cervello. Siamo impastati dei nostri ricordi, tutto di noi contiene tracce. Questo pensiero dovrebbe aiutarci a dare un senso alla decadenza, ad abbandonarci al fascino delle rovine, come accade per quelle non umane.”

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