Maristella Bonomo, “la poesia è un ponte luminoso e segreto che colma le nostre distanze”.

«Non ho altro/ che questi occhi/ come in un sogno/ precipito nel reale./ Antenne ruote scarpe/ bucato al vento/ scosso/ luci che si spengono/ da un palazzo all’altro/ e si riaccendono/ voci dentro/ voci fuori/ nella notte/ tutti/ esistiamo interamente». Versi paradigmatici scelti da “Blu ritratto orizzontale”, nuovo libro di Maristella Bonomo, edito da “Leonida”, includente la traduzione “Horizontal Portrait of Blue” a cura di Amy Hough-Dugdale. È un destino la poesia, leggendo risalta nitidamente l’urgenza dell’autrice che, come ha scritto Angelo Scandurra nella nota introduttiva, “distende in verticale la propria scrittura, […], pronuncia intrecci di suoni nel blu di un ‘nonluogo’, giacché l’orizzonte è di per sé un ritratto, dove confluiscono, magnificamente e implacabilmente, le epifanie del terreno e del trascendente”. Il verbo della Bonomo “riluce” segue “molecole spostarsi nell’aria”, cuce, ricuce e, solidamente, rinasce, corre “come questa realtà di parola”; ora fugge “nel suono”, ora cammina “indietro/ verso il palato/ verso parole/ che non hanno suono”, traspare nel “frammento”, nel “sottocielo”, nel “magma azzurro”. Ripercorre “motivi” assoluti cogliendo il cielo interiore nel quale ciascuno (si) può contemplare.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Blu ritratto orizzontale”?
Un senso di mancanza, direi. Si è tinto di questo colore, che poi per me è il blu della nostra scogliera catanese, un blu arcaico di cui si illumina il fondale di basalto. Yves Klein cercò a lungo per mettere a punto il suo “blu”. Io lo ritrovo al mio rientro nell’isola, tutte le volte che mi affaccio da lì. Penso che questo colore mi appartenga. Oppure sono io che appartengo a questo colore che non è soltanto il colore del mare di Catania, è qualcosa in più. È anche la mia incapacità di dirlo, di riprodurlo nella sua intensità attraverso la parola, è il perderlo. Nelle sfumature di questo blu si sono create, metaforicamente, come onda dopo onda, le poesie del libro. Mi sembrava di raggiungere lì qualcosa di me attraverso la poesia.

Leggendo le traduzioni dei tuoi versi a cura di Amy Hough-Dugdale ti chiedo: pensi che la poesia è realmente traducibile? E se lo è, è più corretto parlare di traduzione o di riscrittura?
Penso che scrivere sia già un’operazione di traduzione. Da un informe che spinge, da un’esigenza che non è facile nominare perché arriva prima, diamo forma alle parole. Poi attraverso la traduzione può diventare una sfida, o un gioco, provare a rendere nella lingua di destinazione una certa assonanza, un ritmo o una struttura che appartiene alla versione originale. Certe volte ci si riesce, altre volte no, con certe lingue si può fare, con altre no e allora bisogna riscrivere, trovare un modo diverso di dire quella stessa cosa. L’esperienza con Amy (che tra l’altro è una mia amica) è stata stupenda. Ha interrogato profondamente ogni parola, ogni concatenazione, ogni verso. Ha lottato perché in inglese queste poesie risplendessero della loro stessa luce. Le sue domande e le sue considerazioni mi hanno aiutata a rivedere i testi, a rischiararli da vizi di cui non mi rendevo conto da sola. Ci sono alcune poesie che secondo me rendono meglio in inglese. Lavorare a stretto contatto con un traduttore è un esercizio utilissimo sulla lingua, per riflettere su come si mette a disposizione della visione.

Dove sei stata condotta dalla poesia e cosa credi possa la poesia per colmare “le nostre distanze”?
Per come la intendo e la vivo, la poesia è una scossa, una crepa che si apre nella realtà (interiore o esteriore) e da cui proviene un mistero accecante, un ponte luminoso e segreto che colma “le nostre distanze” di un senso apparentemente anomalo, differente: avvicina opposti, allontana facili similitudini, scombina i giochi. Attraverso la lingua parla altro. È come il déjà-vu in Matrix, una sorta di errore, ma rivelatore di qualcosa che sta per accadere, o che non era soltanto come sembrava. Credo che chiunque viva di questi squarci. Non tutti hanno poi l’esigenza di tradurre fisicamente l’esperienza poetica. Può rifarsi viva a livello testuale anche dopo molto tempo. Penso che sia sempre più raro riuscire a preservare questo sentire miracoloso, ma è una nostra responsabilità (soprattutto oggi che siamo esposti a un dire e resocontare tutto e fin troppo tutto “social”).

In che modo la vita diventa linguaggio?
Clarice Lispector ci risponderebbe così: “Se il brillìo delle stelle mi fa male, se è possibile questa comunicazione lontana, è perché qualcosa che forse assomiglia a una stella mi freme dentro”. E, dopo una breve pausa, continuerebbe: “Dunque scrivere è il modo di chi si serve della parola come esca: la parola pesca quel che non è parola. Quando la non-parola – quello che è fra le righe – abbocca, qualcosa è stato scritto… La non-parola abboccando ha incorporato l’esca”.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Potrebbe esserlo per qualcuno. Ma vista la corrente insolita con cui travolge, non escludo che trovi sempre una strada diversa, anche un pertugio, per arrivare lì dove le è proibito affacciarsi. In realtà, come noi, non conosce il suo destino. Il suo destino lo decide chi la legge, e in ogni lettore percorre un cammino, apre mondi e risuona a frequenze diverse, quindi dove per qualcuno proietta l’invalicabile, in qualcun altro potrebbe oltrepassare ogni dubbio.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
I nostri tempi sono caratterizzati da uno scrivere esponenziale, si scrive di tutto, si legittima di tutto per iscritto, ogni sentire ogni pensiero ogni conquista ogni ideologia. Per carità se ne ha il sacrosanto diritto. Ma le parole, e il loro potere, inevitabilmente si logorano. Sono come delle scarpe dentro cui si percorrono chilometri e chilometri, poi a un certo punto la suola si fa scivolosa, o si sente freddo perché le scarpe si sono bucate. Rispetto alla forma poetica, e quindi a ciò che contiene, quello che oggi personalmente cerco è prossimo al silenzio. Ho bisogno di rarefazione, di censura, perché la censura consente altri modi, crea la metafora. La parola non deve assordare ma risuonare, attivare, non deve inveire ma accarezzare, accompagnare, trasformare…

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Fai qualcosa di insolito, scegli una regola che non dici a nessuno, gioca, per esempio, a salire sul marciapiede con lo stesso piede e guarda bene la pietra su cui lo poggi, cosa nasconde? Cosa potrebbe dire di te e del tuo passo? Prova a dar voce alle sue increspature.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Scoprire di aver vissuto anche in un altro modo. Scoprire nella voce di altri le somiglianze, i frammenti in cui specchiarsi.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Blu ritratto orizzontale” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Un amico una volta mi disse: camminando si invecchia. Sono una che cammina molto, ed è vero che camminando la (mia) mente diventa crocevia di pensieri più disparati, presente e passato entrano in cortocircuito e fibrillano. Eppure se mi concentro, il movimento anche automatico del corpo mi distoglie dall’abisso che si apre, e mi ritrovo in un ritmo, una propensione, in equilibrio tra dentro e fuori. In questa poesia si è manifestato lo sbalzo di cui parlo. Era un giorno che tendevo a sprofondare ma camminando ho trovato altro.

 

Ti ho cercato
ovunque tu non fossi
la sera
ho abitato nella casa
il tuo rimbombo
un nome tronco.
E cammina che
dal piede mi rilascia
la tua voce
chiama fra le foglie
e sottoterra
ha radici
migliaia di anni luce
verso un buio
illuminando
quel sentire che io stessa
sono suono.

 

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 12.12.2021, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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