Massimiliano Bardotti, “la poesia ci parla da luoghi misteriosi.”

«Ogni bagliore è un angelo, ogni fiore./ Se puoi sentirli cantare/ svanita è la collera, germoglio il dolore». Versi di Massimiliano Bardotti, scelti per segnalare il libro “La disciplina della nebbia”, pubblicato da “peQuod”, nella collana “portosepolto” diretta da Luca Pizzolitto. Il miracolo dell’adesso, dell’istante «fatto eterno negli incanti», dell’ora odierna, “asservita” alla bellezza e al bene, dell’andare sempre fino in fondo, della fede, dell’essere «pronti» allorquando bisognerà “andare”, dell’amore possibile (come delle perenni possibilità dell’amore), dell’amore che desidera (persegue) l’immoralità in unione col giusto, della “santità” di coloro che amano, della resistenza all’oblio, della sofferenza come «preludio della gloria», della “purezza” dell’intenzione, della veglia, del silenzio incline all’armonia, del «seme eterno dell’attesa», fino al miracolo della grazia, «Tutti siano benedetti/ i baci che sorprendono gli occhi». Versi, come scrive Antonella Sbuelz nella prefazione, e con la quale conveniamo, che interrogano, scomodano, irrompono, ringraziano, denunciano, sorprendono. Versi, aggiungiamo, nella vibrazione «di un amore antico che tutto ha preceduto» e che (s)muove incessantemente le nostre coscienze.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La disciplina della nebbia”?

La scintilla è adesso lontana nel tempo, ma posso intuirne ancora il bagliore. Tutto nasce da un verso, o da una poesia, che non è necessariamente la prima ad essere scritta in ordine cronologico, ma la prima che mi fa pensare che tutto quello che sto scrivendo possa far parte di un progetto. In questo caso è stata una prosa (il libro è composto da poesie e prose), da cui nasce anche il titolo. C’è un passaggio che dice “La disciplina della nebbia, che educa lo sguardo all’oltre”. Ho avvertito chiaramente che La disciplina della nebbia sarebbe stato il titolo del libro e avrebbe annunciato gli umori e le intenzioni dei testi che ne fanno parte.

La nebbia ti inchioda alla realtà della sua presenza, si impone e ti impone un atteggiamento. Se non hai necessità di spostarti puoi dedicarti alla sua contemplazione, altrimenti devi riuscire a vedere oltre lei, ovvero oltre la realtà che il tuo sguardo in quel momento percepisce. Come Leopardi che di fronte alla siepe, al sempre caro colle, non si alza in piedi, né sulle punte per provare a vedere l’orizzonte, tantomeno salta, invece si siede. Si siede, come si fa per meditare, per guardarsi dentro. Poi ode il vento, grazie alla predisposizione all’ascolto interiore, e col vento coglie l’infinito. Volgendo lo sguardo dentro coglie qualcosa che arriva da fuori e lo ispira al punto da intuire l’infinito. Perché il mondo interiore e quello esteriore si compenetrano. Così come vita e morte sono una dentro l’altra. Così come il mondo visibile e quello invisibile. Ecco, questo libro è il libro della compresenza del mondo invisibile e del mondo visibile, vuole cantarli entrambi, e nasce da una mai del tutto sopita scintilla d’amore, che vuole diventare fiamma e consumare tutto quello che amore non è.

Scrivi, “Cantare parole capaci di resuscitare.”, ma le parole bastano alla poesia?

Non sono sicuro di un fatto: che oggi si abbia una piena consapevolezza di cosa sono davvero le parole, della loro potenza, del loro mistero. Della loro capacità creativa. Del loro valore salvifico. Delle loro proprietà taumaturgiche. Della loro forza potenzialmente distruttiva. Eppure non mancano certo gli esempi di vite demolite dalle parole. Ma l’uso delle parole che vediamo sui social, e non solo, credo ci faccia capire chiaramente che non conosciamo, non abbiamo idea della loro potenza, altrimenti eviteremmo accuratamente di usarle così male. Se invece ne comprendessimo il valore, le sceglieremmo con cura, pazienza, dedizione. Lavoreremmo su noi stessi con l’intenzione di coltivare una parola buona, per citare una giovane poetessa che amo moltissimo, Eleonora Ines Nitti Capone. Il suo libro (La parola buona, appunto) ritengo sia un testo fondamentale col quale fare i conti, perché ci mette di fronte a una grande responsabilità, che non è solo quella delle parole che usiamo, ma anche e soprattutto di chi siamo! Per citare un altro libro molto importante, Amuleto, di Valerio Grutt, noi siamo responsabili della realtà in cui viviamo, perché le parole che usiamo fanno il mondo, lo modellano. La creazione non è qualcosa di già avvenuto, è qualcosa che continua ad accadere, in ogni instante. Noi partecipiamo in modo decisamente attivo, che lo vogliamo o no. Ignorarlo non ci mette al riparo, non ci salva di certo! Allora se è vero che esistono vite demolite dalle parole, è chiaro che allo stesso modo possono esistere vite salvate dalle parole. E che la poesia salva io lo sperimento di continuo, non solo nei laboratori che tengo.

Per tornare al potere della parola, basti pensare alle formule magiche, che sono composte da una precisa combinazione di parole, o alle preghiere. Ci sono parole delle quali puoi avvertire il potere pronunciandole. Pensiamo ai mantra, alle giaculatorie.

Detto questo, c’è una parola ciarliera, incolta, non meditata, una parola della quale non si è curata l’intenzione, che può essere privata della sua anima, della sua identità, di tutta la sua forza benefica. Tale parola non può salvare niente e nessuno. Della preghiera il valore fondante è la devozione. L’amore che accompagna le parole. Cosa abita le profondità del cuore di chi prega. Nei Vangeli Gesù dice a coloro che guarisce: Ti sia fatto secondo la tua fede…

Per me la poesia non è semplicemente letteratura, non è un componimento letterario, non è un insieme di parole che risponde a delle regole precise: è un modo di stare al mondo. È una via, la via della bellezza. Una ricerca che chiede l’impegno di tutta la vita. Coltivare il proprio giardino interiore, contemplare la natura in tutte le sue forme, lavorare ogni giorno per realizzare la pace nel proprio cuore, così da essere capaci di pacificare. Imparare la gentilezza, la misericordia, la compassione. Imparare l’armonia. Allenare l’occhio agli splendori, il cuore alla meraviglia, allo stupore. E alla perdita anche, inevitabilmente anche alla perdita, al dolore delle assenze. Alla malinconia. All’insopportabile sofferenza scaturita da tutto il male che ogni giorno ci è chiesto di sopportare, e guardare. La violenza, il disprezzo, l’arroganza. La cattiveria. Tutto quello che nel mondo c’è e ne fa parte. La poesia è nel mondo, ma non è del mondo. E il poeta, come un alchimista, deve saper trasformare i metalli vili in oro.

Per me la poesia è una via spirituale. Praticare davvero la poesia, vivere di e per la poesia, è avvicinarsi all’Infinito. Tanto che Dostoevskij scrisse: “Il poeta, quando è rapito dall’ispirazione, intuisce Dio”.

La poesia “Indaga l’Altrove che è dentro ogni essere”?

Secondo me anche, sì, e direi inevitabilmente. Dovremmo chiederci: da dove viene la poesia? Che lingua è? Di quale terra, di quale luogo? Dovremmo essere attenti quando il canto nasce in noi, e ci lasciamo cantare. Per intuire qualcosa in più di un mistero fitto e inviolabile.

L’origine di un verso, almeno nella mia esperienza, è estremamente misterioso. Mi coglie spesso di sorpresa, mentre sto facendo altro o pensando ad altro. Talvolta non è nemmeno un verso, ma un impulso, un movimento interiore che non so descrivere, tantomeno spiegare. Ma sento che devo affrettarmi a scrivere. E poi qualcosa esce, e cresce, cresce con me. Talvolta le parole mi sono completamente suggerite, altre volte ci aiutiamo a vicenda. Ma non so da dove nasca tutto questo. Ancora oggi non so rispondere alla domanda “perché scrivi?”. Onestamente non è qualcosa che ho scelto di fare, casomai qualcosa a cui ho obbedito. E ancora oggi continuo a obbedire, e cerco di crescere in fedeltà.

Ecco, se questa è l’origine della poesia, allora non può che indagare altrettanto misteriosamente in chi legge, e in chi scrive. La poesia ci parla da luoghi misteriosi.

Qual è (o quale dovrebbe essere) la lingua ideale della poesia?

Una lingua che sia totalmente al servizio della poesia, meglio se non c’è alcuna distinzione fra lingua e poesia, se si compenetrano così profondamente da diventare Uno. Come Paolo che dice non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me. Una totale fusione della propria volontà con la volontà di Dio.

Una lingua sacra, che non è da inventare, piuttosto da ascoltare, perché credo esista già, sia dentro alle cose, agli esseri. Credo sia il fondamento di tutta l’esistenza. Se dico la lingua dell’Amore sembra che non dica niente, o dica solo banalità, ma chiedo: Quale lingua ha dato vita a tutto?

Se la bellezza ha una lingua allora è la lingua della poesia. Una lingua che si coltiva nel silenzio, profondissimo. Che sappia parlare a tutti, che sia di tutti. Semplice, e insieme capace di dire l’indicibile.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

Secondo me è assolutamente fondamentale l’autenticità del canto. La forma dovrà essere quella più adeguata a quanto si sta cantando. Ne “La disciplina della nebbia” ci sono poesie e prose perché alcune cose avevano bisogno di un maggiore respiro per essere cantate, altre chiedevano più precisione, più essenzialità. Tutto quello che nasce e vuole essere cantato ha un ritmo, una musica. Nasce già così. La mia ossessione è essere fedele a tale musica, a tale ritmo. Essere fedele a quel che sento nascere dentro. Se lo sono, la forma non la devo nemmeno scegliere, mi è suggerita. Si tratta, nuovamente, di obbedire…

Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia? Qual è stato l’insegnamento?

Alla poesia devo tutto, senza la poesia sarei già morto da un pezzo. Io sono un disgraziato, uno che non sa fare niente di pratico, niente di utile. Mi sono sempre trovato male nel mondo, fin da ragazzino. Non ho mai saputo cosa farci qua e tutto mi preoccupa e spaventa. Sono pavido, estremamente emotivo. Un disagiato insomma, con una necessità viva di ribellarmi che in adolescenza si è manifestata con forza, per poi crescere. Ma la poesia, per fortuna, mi ha preso per mano fin dalle scuole. Quando lessi quel verso iniziale, Spesso il male di vivere ho incontrato, mi sentii compreso. E qualcuno aveva dato un nome a quello che provavo. Da quel momento quando mi chiedevano perché me ne stessi in disparte rispondevo “perché ho il male di vivere”. Era molto figo poterlo dire, in qualche modo non solo mi rassicurava, mi faceva sentire anche speciale!

Molti dei miei venerdì sera li ho passati in casa a leggere poeti morti, i miei amici da sempre. A me la poesia ha salvato la vita! E continua a salvarmi, ogni giorno. Sarei perduto senza di lei. E non parlo della poesia che scrivo, soprattutto di quella che leggo. Ma ancora di più di un modo, di un atteggiamento, di uno sguardo. Abitare poeticamente il mondo, come insegna Bobin.

Accoglienza, compassione e armonia, quindi. E che la bellezza è capace di trasformare la vita delle persone. Questo l’ho imparato soprattutto conducendo laboratori di poesia. Ho visto persone affrontare dolori enormi, per malattie o lutti, e trovare nella poesia qualcosa di più profondo della consolazione. Trovare un senso anche al dolore, alla perdita.

Ma forse l’insegnamento più grande resta quello di aver aperto un varco sul mistero, di avermi fatto percepire chiaramente che esiste tutto quello che non so vedere, che la vita è un mistero insondabile e la morte ne fa parte.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Certamente! Mi viene in mente Whitman, quando canta: Il minimo germoglio mostra che la morte non esiste; con quale altra lingua si potrebbe dire questo? Chi altri ha il permesso di dire una cosa così enorme? Con tale precisione e purezza. Con tale semplicità e a un tempo profondità. Con tale autorità. Il minimo germoglio mostra che la morte non esiste…

O Turoldo che canta: Ma quando da morte passerò alla vita; indicando questa che noi chiamiamo vita come morte, e viceversa. Sottintendendo la nostra vera nascita nella morte, con un ribaltamento geniale e spericolato! La morte come nascita, la tomba come una culla (“Questo non è esser morti, / questo è tornare / al paese, alla culla” Antonia Pozzi).

O Francesco, che chiama la morte sorella, in quel componimento che a tutti gli effetti dà vita alla poesia italiana e che a me ha sconvolto l’esistenza e dato un motivo per indagare a fondo il mistero tremendo della morte. Grazie alla poesia ho scoperto un altro sguardo, grazie alla poesia ho imparato che di tutto c’è un Altrove. E che ogni limite è un’opportunità.

A me la poesia ha insegnato anche questo, che la morte come la intendiamo noi, la morte come cessazione, non esiste, che tutto continua e procede, mai nulla s’annulla, sempre per citare lo zio Walt.

 La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’inascoltato?

La poesia credo canti soprattutto l’inascoltato, che il poeta può, talvolta sa, udire. Turoldo ha speso parole magnifiche sul poeta, definendolo un grande orecchio sul mondo del sensibile e dell’ultrasensibile. Capace di sentire il canto della pietra, o quello segreto del crescere di un filo d’erba, Il canto delle risacche. Il Salmo 64 si conclude con queste parole: Tutto canta e grida di gioia. Sì, tutto canta e grida di gioia! Ma chi, chi sa udirlo? Chi può? Chi sente il canto del filo d’erba che cresce? E chi può farsi orecchio per tutti? Chi è capace di ascoltare e poi cantare per tutti coloro che non possono o non sanno sentire, ascoltare? Chi?

La poesia è questo mistero, perché è il canto segreto e quello svelato. Abita dentro tutte le cose e si rivela solo a chi ascolta attentamente, a chi sa fare spazio in sé affinché qualcosa di eternamente più grande possa attraversarlo. Poi il poeta ha la responsabilità di diventare voce per tutti, di tutti. Quindi la solitudine del poeta la credo una condizione necessaria, meglio se meditata, anzi meditante, più che pensosa. Contemplativa. Che non deve però per forza essere una condizione costante, ma uno spazio della vita cercato, desiderato, conquistato. La poesia ha bisogno di spazio per manifestarsi, di un tempo totalmente dedicato (anche se poi arriva quando vuole e se vuole). Di devozione, totale e assoluta. E di amore, certo. Essere amata la fa diventare molto generosa.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “La disciplina della nebbia” – (ti chiedo gentilmente di riportala) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Un giorno, molto presto
rinverdiranno tutte le cime
(degli alberi, delle montagne)
le ali dei migratori, tese a intercettare il vento
voleranno lontane, in una differente stagione.

Allora sarà come rivedersi,
ci sarà ancora tempo per qualunque cosa
ma nessuno ne avrà voglia;
vorremo solo stare fermi e guardarci
scorrere i lineamenti, tacere
e poi stringerci, senza farci più male
stremati addormentarci
e aspettare, come dovesse fare giorno
da un momento all’altro.

Avevo in testa i primi due versi. Li ripetevo ad alta voce, senza sosta. Poi è arrivato il terzo verso e sempre di più riuscivo a vedere quello che stavo cantando. Le immagini si sono pian piano dipanate, chiarite. Più si chiarivano le immagini più arrivavano le parole giuste. La scrittura è stata lenta, faticosa. Dentro di me sentivo crescere, insieme alla stesura dei versi, la volontà di scrivere qualcosa che portasse dentro di sé il dono della speranza. Erano i giorni della pandemia, giorni che per tantissimi motivi hanno segnato le nostre vite, e forse in modo subdolo e non del tutto chiarito, continua a segnarle. C’era l’intenzione chiara di colmare la distanza fra la mano e la carezza, fra i corpi e l’abbraccio. E come sempre, avvertivo che doveva essere la natura, questa grande madre bellezza, a darci la chiara indicazione di un nuovo sguardo, di una nuova possibilità. Ecco cosa è quel “rinverdiranno”.

Del resto potrebbe anche trattarsi dell’annuncio di un “dopo”, forse è la descrizione di un luogo che incontreremo solo dopo il privilegio di aver attraversato la porta della morte, e di essere così non più vivi, ma semprevivi…

Grazia, ti saluto ringraziandoti con tutto il cuore per queste domande bellissime alle quali spero di aver risposto in maniera almeno un pochino adeguata. e grazie a tutte le lettrici e i lettori de L’Estroverso. Un grandissimo abbraccio, ogni bene a tutte e tutti voi.

 

Biografia dell’autore

Massimiliano Bardotti​ (1976) è nato e vive a Castelfiorentino. Poeta, è presidente dell’associazione culturale Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini. Pubblica tra gli altri: Il Dio che ho incontrato (2017 Edizioni Nerbini), Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali (2019 Tau Edizioni), La terra e la radice (2021 Puntoacapo Ed), La disciplina della nebbia (2022 peQuod Ed collana Portosepolto). È curatore della collana poetica Fuori Stagione, insieme a Gregorio Iacopini e Serse Cardellini. Accompagna Luca Pizzolitto, che ne è fondatore, nella direzione della collana poetica Portosepolto (peQuod Ed). Nel 2017 a Castelfiorentino dà vita a: “La poesia è di tutti”, percorso poetico e spirituale, presso l’ass. cult. OltreDanza. Dal 2018 conduce: “L’infinito, la poesia come sguardo: Ciclo di incontri con poeti contemporanei” al san Leonardo al Palco di Prato. Dal 2018 è docente per “L’accademia Gemino Formazione” di Gorizia, per la quale conduce esperienze laboratoriali e letture poetiche. Dal 2022 cura, insieme al poeta Valerio Grutt, la Scuola Annuale di Poesia (La parola, l’ispirazione, la voce) ideata da Valentina Lingria (presidente de La scuola di Editoria).

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 27.08.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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