Massimo Morasso, “La poesia capta lo spirituale nella carne”

rubrica (tre poeti, tre riflessioni, tre poesie)

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Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Ti dirò che ormai, fuor di giovinezza, mi ritrovo a essere abbastanza sospettoso delle definizioni in generale, e della definizione della poesia in particolare. Ricordo che già quasi novant’anni fa, nel 1929, si poteva pensare autorevolmente e, in fondo, legittimamente, alla poesia sia come a una festa della ragione (Valéry) sia come al crollo della ragione (Breton). Oggi, di questo indefinitamente definibile, che preda del demone teorico ho perso tempo anch’io a definire in vari modi, per un po’, per esempio come “metodo asistematico di conoscenza”, o addirittura come “ontologia”, non ho più un’idea precisa. Cosa che non mi spaventa, e, anzi, in un certo senso perfino mi conforta, poiché la poesia, qualsiasi cosa sia, è un fatto, e non un’idea. Per me, la poesia resta poundianamente l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato, ma è pur vero che leggo buona o anche ottima poesia che contraddice con serenità l’assunto di Pound, e si muove per strade meno impervie. La poesia è un gesto produttore di segno che risponde a una qualità creativa, e non performativa, dell’intelligenza. La poesia capta lo spirituale nella carne con la punta del senso reso affilato dall’intuizione.

Qual è il ruolo della vita nella tua poesia?

In un testo contenuto in Nel corpo oscuro della metamorfosi Mario Luzi incontra il vivo come “il punto pullulante dell’origine continua”. Anche nella mia poesia la parola parla “in/dentro” quel punto mobile e sorgivo e lo pone con il suo piccolo, grande potere de-signativo in una forma di coappartenenza con la sua origine. Io credo che sia sul piano della parola che si gioca la questione della generazione, che è l’orizzonte stesso della Vita, e dell’incarnazione. Voglio dire, che per me quello della creazione è il piano del mondo, mentre quello della generazione è la modalità specifica con cui ognuno di noi viene alla vita in un corpo-dimora chiamato a dar corso a un difficile processo di autorivelazione per mezzo di parola. C’è un altro nome per questo “vivo” del quale, esistendo, facciamo esperienza e che siamo, e questo nome è il vecchio, inossidabile nome di spirito. Ciò che vive in quel vivo è il paese natìo dell’anima, ed è il paesaggio, in noi e fuori di noi, che fa di noi esseri umani – poeti o non poeti, va da sé – dei ponti, dei medium, fra le profondità delle radici e la volta stellata. Nella mia poesia la vita prova per così dire se stessa, e così facendo continua a generare il mio io come ciò in cui essa si manifesta.

Qual è il momento in cui una poesia può dirsi compiuta?

Quando lo stile è finalmente in gloria. Quando, cioè, la forma del testo risponde con precisione alle regole non scritte che fanno il suo bene. Per me, che nutro la maggior parte delle mie visioni a fonti antropologico-filosofiche e teologiche, integrità, proporzione o armonia fra le parti, chiarezza e splendore sono i frutti di un’intelligenza autenticamente poetica – di un’intelligenza pratica, pertanto, che ha saputo lavorare con fruttuosità insieme ai sensi. Ma la perfezione, in arte come dappertutto, è un obiettivo ideale, non un dato acquisito. Mai. Se il testo, una volta pubblicato in un libro, non può che restare quello che è, dentro a quel libro, l’uomo che lo ha scritto è diventato giocoforza un altro, e può voler cambiare ciò che scrisse; che adesso, come capita, trova stilisticamente improponibile, e con ogni probabilità, tutt’altro che “in gloria”. Per cui, perlomeno in un certo senso si sbaglia a pensare che una poesia possa essere per davvero compiuta. Anche la Divina Commedia, in effetti, potrebbe essere più compiuta di quanto non sia. Dante avrebbe dovuto dar mano a un ulteriore giro di labor limae per renderla perfetta? Non credo, ma può darsi benissimo. La compiutezza è un attributo divino, e il nostro di artisti-artigiani ha da essere sempre un procedere a tentoni, inappagato per quanto inappagabile, lungo la via che porta alla bellezza.

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tre poesie da L’opera in rosso (Passigli)

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‒ Sto al centro della vita. No, ai suoi dueterzi.
‒ Andremo via come potremo, quando sarà.

Non si sfugge all’amore che ci affanna.
Né al fuoco che c’incenera
e ci stacca.

Con quanta fatica
sto imparando a farmi amico
di ciò che mi condanna.

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Maestrale.
Dentro a una sera d’oro
fra i rapidi zig-zag dei balestrucci
detta il suo annuncio
d’aria
e lapislazzuli.

Ad ascoltarlo il mio giardino
e un bimbo, un arcipelago
in tempesta, e tutto intorno Genova,
scalena e verticale,
avvolta nel paltò delle colline.
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Quella gioia, quell’oscura
consapevolezza
di essere nel giusto
in compagnia delle parole, le momentanee
sospensioni del mio tempo piccolo, bambino,
dell’incredulità
che spinge verso l’irriflesso
restando in superficie,
senza antenne.
Ci smaga da noi, la parola,
ci rende esploratori
del nostro stesso desiderio,
del popolo dei sogni e del reale
che dà sapore e sensi alla realtà.
Per farci stare insieme
in mezzo ai nomi ‒ di tutti e di nessuno ‒

viandanti all’arrembaggio mentre andiamo
giù, che è uguale
uguale a dire
su, nell’ampio e nell’altezza scivolando
verso gli aperti spazi che si espandono
dove risuona l’eco dell’origine,

poesia.

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