«Quanta mitezza inconsapevole / nutriamo sempre in noi. / […] // Solo bruciando bruciando / tutto il superfluo sarà possibile / un passo a ritroso. // Non pettinarti senza che un ricciolo / ti scappi via. Ne avrei paura». Versi di Maurizio Cucchi, scelti da “Paradossalmente e con affanno”, libro edito da Einaudi, includente testi scritti negli anni 1963-1969. Una raccolta, come nello stile dell’autore, aderente alla vita, costellata da folgoranti «momenti di suspense». Nata dal desiderio, trascorsi cinquant’anni, di rincontrare se stesso, quel «ragazzo, mite e malinconico, che girava incerto per le strade del quartiere, un quartiere milanese elegante eppure periferico, dove abitava con la madre». Pensata in tre porzioni poetiche (“Sua Eminenza Verbale”, “Paradossalmente e con affanno”, titolo di una plaquette tipografica, fuori commercio, stampata alla fine del 1970, “Grottesco”) e una prosa peregrinante (“La sciostra”). «La poesia è un’arte, ed è il miracolo della sintesi estrema della parola nella bellezza onesta della forma», dichiara Cucchi.
Ansiosamente attendo / che con ampio gesto paternalistico / mi si preservi da morte. Con i suoi versi, le chiedo: la poesia può (e, se può, in che modo) preservarci dalla vita?
«Al contrario, la poesia deve meglio aiutarci a essere nella vita, a comprenderla di più, a non farci schiacciare dai meccanismi sociali che tendono ad annientare il nostro rapporto diretto col reale, di cui abbiamo necessità».
Qual è il ricordo (o l’aneddoto) legato alla sua prima poesia?
«La prima poesia risale al tempo delle elementari, ma io non l’ho più. Ricordo che parlavo dell’autunno e dello scricchiolare sotto i piedi “delle foglie morte, come se piangessero”».
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi non dovremmo mai dimenticare?
«La letteratura è ricchissima di meraviglie. Ognuno ha i suoi amori. Ma per me sono molti e quando trovo qualcosa che mi colpisce lo memorizzo e ringrazio. Perciò non saprei scegliere, se non citandone troppi. Certo, “Perch’io no spero di tornar giammai” continua a parlarmi. Mi sembra un epitaffio dell’umanità».
Qual è – nell’arco della sua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia?
«Nessuno. Io vivo normalmente, in modo comune e anonimo. Penso, è chiaro, rumino i miei pensieri che a volte divengono versi. E, quando ne ho voglia, li trascrivo e ricompongo».
Quando una poesia può dirsi compiuta?
«Forse mai. Però, a un certo punto, con animo artigianale, l’autore deve dirsi: va bene così».
La poesia – momento di suspense / collegamento temerario / tra la vita e la morte – può (e, se può, in che modo) restituire “purezza” alla parola?
«Non solo può, ma deve, e se anche il suo compito fosse “solo” questo, sarebbe comunque qualcosa di altissimo e civile. Il poeta deve potersi assumere la piena responsabilità di ogni sua sillaba, conoscerne e valorizzarne le implicazioni anche minime. In un tempo che fa quotidiana violenza alla nostra bellissima lingua, che ci arriva attraverso secoli di umana storia».
Il “poemetto in prosa” è – come ha scritto – la scelta stilistica destinata a imporsi nel futuro?
«Sicuramente è destinato ad acquistare sempre maggiore spazio. Purché se ne sappia comprendere il diverso e necessario valore rispetto al verso, che, comunque, non potrà certo essere abbandonato, anche se, magari, seguendo secondo nuovi criteri».
La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica? Quest’ultima per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
«Un testo poetico non può non essere in forma, anche se questa forma oggi deve e può sempre più rinnovarsi e trovare una propria giustificazione interna. Siamo esseri storici e quindi, comunque, usiamo una lingua di cui abbiamo esperienza diretta. Il che non significa, oggi, riprodurre gli orrori che la lingua stessa subisce, ma cercare di restituirle dignità e bellezza».
Riporterebbe una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ama trovare rifugio?
«Citerei Altro compleanno, Vittorio Sereni, soprattutto quando dice: “Passiamola questa soglia una volta di più”
A fine luglio quando
da sotto le pergole di un bar di San Siro
tra cancellate e fornici si intravede
un qualche spicchio dello stadio assolato
quando trasecola il gran catino vuoto
a specchio del tempo sperperato e pare
che proprio lì venga a morire un anno
e non si sa che altro un altro anno prepari
passiamola questa soglia una volta di più
sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
e un’ardesia propaghi il colore dell’estate.».
Per concludere, la invito a scegliere una sua poesia (dal libro “Paradossalmente e con affanno”) per salutare i nostri lettori.
«Direi proprio l’ultima:
Anch’io sono già passato
nel flusso della corrente.
Io sono un solitario
che osserva il mondo,
le moltitudini, e assaporo
le radici, davanti a quest’agave
spelacchiata e ai mattoni
dell’argine a vista. Il verde
selvatico e muffo si tuffa
e gronda giù, mentre il colore
delle acque per anatre e topi
mi assorbe. Una sciostra, forse,
fra canne e sterpaglie, antico
magazzino di legna, calce e tegole,
e mia residuale dimora felice.».
—
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 24.09.2017, pagina Cultura).