recensione di Ida Rampolla del Tindaro
Questo libro offre parecchie chiavi di lettura. È un testo ricco di spunti d’ogni genere, che investono diversi campi culturali, dalla psicologia alla filosofia, dall’etica alla memorialistica, dalla storia all’attualità, dalla scienza alla religione. Sarebbe riduttivo considerarlo solo un romanzo autobiografico, la storia di un medico che si scopre paziente. È una storia autentica, che assume però, come dice lo stesso Autore, una valenza e un carattere universali. La molteplicità dei significati è indicata dalla simbolica copertina, in cui, sotto un cielo carico di nubi foriere di tempesta e su un prato arido e pieno di erbe secche si apre una porta dietro la quale si scorge un cielo azzurro e un prato verdeggiante.
Ma, malgrado il valore simbolico di questa immagine, non si tratta solo di una testimonianza di coraggio o di una appassionante vicenda dai momenti drammatici vissuta in prima persona. È un’opera dalle mille sfaccettature, che getta squarci di luce su molte complesse realtà che fanno parte della vita quotidiana e del mondo d’oggi. Fa da sfondo certo il mondo della sanità, che tutti conosciamo perché, a parte le esperienze personali che ognuno può avere fatto, è sempre all’ordine del giorno nella cronaca, nell’attualità, nella politica e nel vissuto quotidiano dei cittadini. Inoltre, proprio nei giorni scorsi la stampa ha dato ampio spazio, a cura di specialisti dei vari settori, alle relazioni tra la medicina e la letteratura e perfino tra la medicina e la musica. Si tratta dunque di una disciplina che investe tanti campi. Inoltre, la recente pandemia, le molteplici iniziative riguardanti le nuove scoperte scientifiche, la continua scoperta di malattie prima sconosciute, fanno parte della cronaca dei nostri giorni.
Il libro parte appunto dalla scoperta di una malattia rara come la Faby-Anderson, un disturbo metabolico ereditario causato da una mutazione del DNA. Apprendiamo anzitutto dal libro alcune verità sconosciute a chi non appartiene al mondo scientifico, e cioè che il numero delle malattie rare già conosciute e diagnosticate oscilla tra le 7000 e le 8000, una cifra già preoccupante ma che cresce con l’avanzare della scienza e con i progressi della ricerca genetica. Una vera spada di Damocle che incombe sull’umanità e che riguarda, nella sola Europa, decine di milioni di persone. E pare che la diffusione sia ancora sottostimata rispetto a quella reale. La Faby-Anderson inoltre, con la mancanza di sintomi clinici iniziali, rende difficile una diagnosi precoce. Queste notizie, indubbiamente preoccupanti, portano a un tema difficile e spiacevole, di cui non piace mai parlare ma che in letteratura è stato sempre affrontato nei suoi molteplici aspetti, e cioè quello della precarietà della vita e della sua inevitabile fine. Come dice Fabio Cavallari nel suo illuminante Preludio, la vita e la morte sono due elementi che si toccano. Il termine Preludio ha un bel significato musicale. I Preludi precedono le sinfonie, che comprendono sempre molti movimenti: c’è l’allegretto, l’adagio, il maestoso, il vivace con brio… E anche la vita ha tanti movimenti. In cui i vari motivi si alternano e si intrecciano continuamente.
E Cavallari aggiunge che, quando l’uomo riesce a riconoscere il senso estetico della vita, cioè la bellezza nel suo dispiegarsi, anche a dispetto della sua finitezza e della sua precarietà, allora è in grado di rintracciare il senso stesso del vivere. Ed è proprio questa la prima scoperta che il libro ci induce a fare: la scoperta della complessità dell’umano attraverso una visione del mondo che investe la concezione della vita, della medicina e della persona. È la scoperta del mistero della vita. E questo porta a non considerare la morte solo come semplice cessazione delle funzioni vitali, ma a collegarla a determinazioni e analogie varie nell’ambito etico e psicologico. Ma l’etica, in questo caso, non è solo un’indagine speculativa, non è la fredda rappresentazione di un complesso di manifestazioni o condizioni della vita intellettuale o psichica.
Per capire la complessità del libro ci viene in aiuto lo stesso titolo “Mutazioni”, che si riferisce appunto ai cambiamenti. Mutazione significa trasformazione, variazione, alterazione. La malattia in questione è dovuta appunto alla mutazione di un gene, con coinvolgimenti di tipo cardiaco, renale e neurologico. Una mutazione che presuppone un processo o un seguito di esperienze che portano a un cambiamento. Di fronte a una mutazione, dobbiamo considerare il nostro io all’interno di un contesto mutevole. La malattia è stata une grande mutazione nella vita umana e lavorativa della protagonista. E questo ci fa capire anzitutto l’impostazione anche filosofica del libro, impostazione che è evidente anzitutto nelle citazioni, basate anche su considerazioni etimologiche che ci fanno comprendere la vera essenza e il vero significato delle parole. Particolarmente interessante, ad esempio, la spiegazione che il libro ci dà, a proposito delle relazioni tra medico e paziente, del termine empatia, che viene dal greco en, che vuol dire dentro, e da pathos, che significa sofferenza o sentimento. Significativa anche la spiegazione del termine cura, che in latino era usato in un contesto di relazioni di amore e di amicizia ed esprimeva l’atteggiamento di premura, preoccupazione e inquietudine nei confronti di una persona amata.
Ciò che l’esperienza personale della malattia ha insegnato alla protagonista è espresso in termini quasi lirici; inoltre, con originali accostamenti, il termine curare viene collegato alla vita dei campi, in cui non basta piantare un seme per raccogliere un frutto, ma serve una mano che sappia affinare e proteggere la crescita, con competenze da esercitare nel quotidiano, con quell’attenzione contadina in cui la cura è il nucleo essenziale del vivere. Ma il termine ispira anche riferimenti letterari, perché viene accostato al rapporto emozionale che legava l’antico aedo, cioè l’autore, che era anche cantore, al suo pubblico. La poesia, anticamente, era trasmessa oralmente, e questo creava un particolare legame tra l’autore e l’ascoltatore. E non manca il riferimento alla psicologia, che considera l’empatia la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona: tutte qualità che il medico deve possedere. Il medico deve porsi di fronte al paziente a un livello quasi paritario dal punto di vista umano, utilizzando la professione e il proprio sapere per stabilire un’alleanza, mai un rapporto di subordinazione. Altro termine etimologicamente significativo è quello di palliativo, che viene da palliare, ovvero coprire, nascondere con un pallio, che nell’antica Grecia e nell’antica Roma era il telo di lana che si drappeggiava sopra la tunica. Le cure palliative servono a dare senso e dignità alla vita del malato fino alla fine, alleviando dolori e sofferenze, anche se vi sono fattori non sempre controllabili con la sola terapia analgesica. Anche a questo proposito torna il principio, sempre affermato nel libro, che occorre rivolgere un’attenzione complessiva all’individuo nella sua complessità, con professionalità e umanità, dando valore al vissuto quotidiano. Quanto è detto nel libro a questo proposito potrebbe diventare una pagina da manuale sui rapporti medico-paziente. Purtroppo però non sempre il medico riesce a sintonizzarsi rapidamente con il paziente, che invece guarda al medico come a un Dio, aspettando da lui la salvezza. E qui bisogna sottolineare un altro aspetto significativo e importante del libro, il riferimento alla religione e alla vita spirituale. La certezza inconfutabile, dice la protagonista, bisogna chiederla solo a Dio. C’è dunque l’imponderabile, rappresentato dalla fede, di cui è affermata chiaramente la forza. Nel libro troviamo affermato questo principio: la pazienza, che il medico deve sempre avere, dev’essere sorretta dalla possibilità clinica di far fronte a quell’ignoto e a quel mistero che è la vita. Ed è affermato soprattutto il valore delle relazioni con gli altri, vista come ascolto, capacità di entrare in connessione, attraverso un incontro in cui ognuno mette in gioco se stesso, l’essenza della propria vita e il rapporto con l’Assoluto. E c’è un’altra affermazione importante che mi piace citare: “È pressoché impossibile lavorare e vivere accanto al dolore, alla sofferenza, alla malattia e alla morte evitando il confronto con la dimensione spirituale dell’uomo”. Anche quando non esplicitata (sono sempre parole del libro) “ogni ammalato vive questa dimensione attraverso fondamentali interrogativi che dicono della nostra trascendenza”. L’opera è tutta pervasa da questi fondamentali interrogativi, che si alternano a dubbi e conflitti interiori legati al mistero dell’uomo: un conflitto interiore che è all’origine del pensiero e della passione per il nostro futuro. L’A. riflette profondamente su quanto diceva il padre della medicina, Ippocrate, sull’arte medica, che consiste nel ristabilire l’equilibrio, l’armonia e la salute, sapendo combinare i diversi elementi e ingredienti in grado di risanare il buono stato fisico e mentale, non basandosi però soltanto sull’esperienza ma entrando in contatto con l’unicità del paziente, responsabilizzando sia lui sia chi gli sta intorno, senza delegare la propria salute totalmente al medico.
Quanto alla medicina in quanto scienza, questa si basa certo sull’esperienza della ricerca, che è sempre in continua evoluzione, un continuo work in progress. A questo proposito il riferimento è di tipo scientifico. È citata infatti l’affermazione di un matematico e fisico francese, Henri Poincaré, che si era occupato anche della struttura e dei metodi della scienza e che affermava che, per quanto saldamente stabilita ci possa sembrare una previsione, non siamo mai assolutamente sicuri che l’esperienza non la smentirà. Ci si può trovare praticamente nella stessa situazione del giocatore che calcola le probabilità.
A queste considerazioni e a questi riferimenti, in cui si mescolano, come si vede, scienza, fede, teoria, pratica e psicologia, si aggiunge l’elemento umano, che dà a queste pagine una particolare intensità emotiva. La protagonista, nel corso di una ricerca, volta ad accertare la presenza di eventuali pazienti, nel suo laboratorio, affetti dalla rara malattia, scopre che c’è solo una paziente donna, e che quella donna è lei. La scoperta di essere affetti da una grave malattia è sempre un trauma. In questo caso, poi, la malattia è ereditaria, quindi anche i suoi due figli ne possono essere affetti. È facile immaginare il tumulto di sensazioni, preoccupazioni, angosce, che assalgono la donna.
Anche dal punto letterario, queste pagine toccanti hanno una forza particolare. L’analisi psicologica si unisce alle reazioni emotive, sempre rese con profondità ma con estrema delicatezza. È la descrizione dell’immagine di un personaggio che non è quella esteriore che vedono gli altri, ma quella autentica, raffigurata nella sua nuda essenza. E c’è la rappresentazione di un elemento che ha spesso ispirato la letteratura: lo sdoppiamento della persona, con tutte le sue ripercussioni umane e spirituali. Il doppio consente di esaminare e rappresentare realtà diverse messe a confronto. In questo caso, poi, la protagonista non può spogliarsi del suo ruolo, non può scindere i due aspetti, quello di medico e quello di paziente, che si uniscono ad altri, quelli di moglie e di madre ma anche di donna. Osserva da paziente, ragiona da medico e soffre da donna. E il tema dello sdoppiamento porta alla considerazione della duplice dimensione dell’essere umano, l’elemento corporale e quello spirituale: una contraddizione solo apparente, che però in questo caso è anche un valore aggiunto. Tutte verità che l’A. ritrova meditando la lettera apostolica di Giovanni Paolo II, intitolata Salvifici doloris, che lo induce anche a sottolineare, a proposito del dolore, il valore dei sentimenti e l’importanza, per il malato, di sentirsi amato, accolto e accompagnato anche oltre il suo problema fisico.
Dal punto di vista letterario, vi sono ancora altre considerazioni da fare. Scrivere diventa una liberazione e un’occasione per riflettere sui grandi temi della vita e soprattutto sull’elemento spirituale e religioso e ad accettare il dubbio come tensione verso il sacro.
Ci sono naturalmente tanti altri risvolti umani, come i rapporti con altri professionisti, i problemi burocratici ecc. Ma la considerazione più importante è che al centro della qualità di cura esiste l’individuo nella sua complessità e che nelle strutture ospedaliere deve essere rivolta un’attenzione complessiva alla persona. Professionalità e umanità sono i due termini indispensabili per dare valore al vissuto quotidiano, con attenzione anche ai risvolti sociali.
Da questo nasce l’iniziativa di cui la dottoressa si è fatta promotrice, una onlus intitolata Humanity, con l’obiettivo di sostenere e aiutare i malati fragili o non autosufficienti, che vivono in famiglie disagiate. Questi principi sono stati esposti dall’autore del libro, Fabio Cavallari, in un altro suo scritto, la prefazione a un volume fotografico intitolato La speranza non deve mai essere abbandonata, un libro che mostra il vissuto duro e straordinario di alcune famiglie che ospitavano in casa un loro caro con una malattia estremamente invalidante. Un libro pervaso dalla rassegnazione e dall’amore per la vita, che ha suscitato nell’Autore il desiderio, che era anche quello dell’autore delle fotografie, di dare dignità a questa immensa umanità ferita.
Naturalmente la realizzazione della Onlus ha posto innumerevoli difficoltà di carattere pratico. Ma voglio citare una frase del libro Mutazioni: “La razionalità che la scienza mi ha dato non è mai un ostacolo ai miei desideri, anzi essa si sposa con una frase celebre di Einstein: Ci sono solo due modi di vivere la propria vita: uno come se niente fosse un miracolo, l’altro come se tutto fosse un miracolo”. Humanity risponde all’ambizione di essere al mondo con uno scopo, quello di aiutare chi ha bisogno: un obbligo civile, un ruolo sociale che ognuno deve compiere. Ma a questo la dottoressa ha aggiunto un suo impegno medico e sociale forse ancora più oneroso, quello di svolgere la sua professione, al tempo della pandemia, addirittura a Settimo Torinese, quindi molto lontano da casa, in quanto membro dell’organizzazione Valetudo, che mette in circolo professionalità mediche là dove vi è carenza di personale. Un compito duro, che ha svolto pur essendo malata e molto lontano da casa. Ma per lei le malattie vanno affrontate, come va affrontata la vita. Ogni vita merita rispetto e dedizione, con applicazione, studio, empatia. Proprio questa esperienza ha fatto nascere questo libro, che le ha insegnato un nuovo modo di rapportarsi con gli altri, con l’umanità in generale. Significative le sue esperienze durante la pandemia, quando il malato, in ospedale, era completamente isolato e non poteva ricevere nessuno.
Infine, dal punto di vista letterario, va segnalato un altro aspetto. Il libro è scritto in prima persona, la narrazione, avvincente, parla di esperienze reali vissute da una donna, esposte in un diario; ma l’Autore è un uomo, un giornalista che collabora con strutture pubbliche e private nel campo della comunicazione e che ha scritto varie opere riguardanti queste tematiche. È dunque un libro che ha due autori, un libro scritto a quattro mani. Difficile, per il lettore, stabilire il contributo dell’uno o dell’altro. È l’espressione, come dice l’Autore nella prefazione, di una combinazione armoniosa tra passione e razionalità. Le domande sul destino, implicite nel dialogo con la protagonista, sono state uno spunto per dipingere quello che l’argomento non lascerebbe presupporre, cioè la gioia stessa del vivere, la passione per l’umano, l’amore per il bello e il buono che vi è sulla terra: un vero inno alla vita.
Maricia ci fa sapere di essere stata bloccata a scuola, nella libera espressione delle sue emozioni nei temi di italiano, da una insegnante di lettere, che, con le sue rigide imposizioni di tipo stilistico, purtroppo le aveva tarpato le ali e le aveva tolto l’autostima. La scelta di studiare medicina l’aveva portata a rivivere le emozioni, come quando scriveva da ragazza: e proprio in questa facoltà di tipo apparentemente solo scientifico aveva visto un incontro la cultura umanistica.
Nel libro c’è ancora un altro elemento profondamente umano da sottolineare. Il diario da lei tenuto nasce come un colloquio con la madre, donna di grande cultura umanistica, morta un anno dopo la diagnosi della malattia della figlia, di cui era stata tenuta all’oscuro. Un dialogo immaginario dunque, ma significativo per le considerazioni che le ispira. Scrivere un diario è stato per lei la possibilità di arricchire il bagaglio che portava in sé, attraverso l’incontro con gli altri e l’esperienza di vita maturata.
Attraverso questo lavoro a quattro mani il libro riesce mirabilmente ad esprimere tutte le complesse tematiche affrontate con uno stile chiaro e limpido, degno del migliore giornalismo, ma nello stesso tempo ricco di segrete risonanze e di un profondo, umanissimo pathos che è certamente frutto della grande sensibilità femminile della dottoressa.