Per arrivare a noi stessi, cioè all’assoluta e perpetua origine, vale il motto
degli antichi navigatori: buscar el levante por el ponente. Raggiungere
il levante, il paese dell’aurora e della resurrezione
seguendo la rotta verso ponente, verso il tramonto e la morte.
Soltanto questa rotta è la giustificazione del viaggio.
Andrea Emo
Con Planctus si è concluso un ciclo.
In Tanatoparty (2009), la riflessione sulla morte della persona amata prendeva l’avvio dallo scandalo del cadavere, non oltrepassava, se non per istantanei sprazzi (inclusa un’accozzaglia di segni – date, numeri, combinazioni anagrammatiche – che si tentava di decrittare per trovare un senso all’esperienza dell’annichilazione), la datità del corpo, le sue potenzialità espressive, financo spinte al grottesco del post mortem. Il microcosmico, la perdita individuale, non poteva che essere affrontata trasformando, il più asetticamente possibile, lo sfondo teorico di partenza (Bauman, Morin, Ariès…) in finzione narrativa.
Si era infatti al punto della pietrificazione.
In poesia (Ballabile terreo, 2011), si balbettava il canto del dolore, l’invocazione dell’assente: dalla “distanza finzionale” si passava dunque all’espressione della tangenza tra Io e Altro, in forma di Tu.
La statua finalmente lacrimava.
Si poteva approdare quindi a una revisione, mitizzata, del passato (Madreferro, 2011). Ripercorrere crescita e iniziazioni, pronunciare esorcismi, muoversi, riallontanarsi di nuovo, temporalmente stavolta, dopo la massima prossimità poetica (La morte, da ogni punto di vista, innesca il movimento: movimento “del personale”, promozioni e mutazioni, rotazioni e migrazioni, raggruppamenti e sconfinamenti, transazioni e iniziative in ogni ambito, Jankélévitch).
Nel 2013, Planctus era pronto. Terminato.
Non senza avere aperto una breccia di approfondimento: un ulteriore anno, il 2014, di studi tanatologici “ufficiali”, all’interno di un master universitario. Dal personale al transpersonale, ancora, in altra forma.
L’impresa: tramutare retrospettivamente la vita perduta in biografia, ricavarne un senso etico. Perdonarsi per l’orizzontalità delle parole usate col morente, risarcirlo con parole postume che almeno aspirassero alla verticalità. Parole di guado, per entrambi. Non esorcismi e formule, non più il dilapidarsi del sangue, ma la preghiera piana, il lenimento, l’accettazione, la compassione universale.
Il cerchio si chiudeva.
La scrittura non è che “leggere se stessi” diceva Andrea Emo, aggiungendo che, in questa lettura ad alta voce, i morti non cessano di parlare con noi.
Non vedo altra ragione di scrivere, di profanare il silenzio, se non questa: la continuità di un dialogo con tutti quelli che sono già passati altrove. O in nessun luogo.
Stralcio di Planctus, Meridiano Zero
Parole di guado 2
L’essere primordiale emise il mondo con un atto sacrificale, ma, non essendoci ancora nulla da offrire come oblazione, sacrificò se stesso, il suo corpo, e il mondo venne alla luce; dopodiché quell’essere smembrato chiese al fuoco di ricomporlo.
Siamo sostanza offertoria, i nostri corpi, papà. Scandiamo il tempo con una piccola liturgia di sacrifici vicari, nella temuta attesa del grande sacrificio. Solo un fuoco può riempire parzialmente i nostri progressivi vuoti, solo l’altare di una passione. Ma non dovremmo forse rinunciare a questo riempimento prima della fine, rinunciare a tappare i buchi e, anzi, forare i mattoni degli altari, tarlare il legno? Il buco nella parete cardiaca di tua figlia, il buco che c’è in ogni cuore, il buco-spazio dove dimora il pieno assoluto dello spirito. Dobbiamo tarmarci, papà, come una vecchia coperta, farci fessure, abitare altri buchi, altre cavità, uscire dai villaggi e andare nelle foreste, diventare creature interstiziali, dire di ogni cosa: “Non così, non così”, e quindi perforare pure le parole.
Ricordi le capanne che mi costruivi quando non ero ancora in grado di farlo da me? Avevi compreso da subito il mio bisogno di raccogliermi, d’isolarmi in un buco, quei miei giochi di catastrofi, di fine del mondo, e l’unico rifugio di una tenda, le poche cose necessarie da mettere in salvo, formine di fango e foglie come cibo, il sole che si oscura, il diluvio seguito dall’infantile palingenesi, l’uscita dalla tenda, la merenda. Poi eri diventato artefice di māyā, preparavi i pannelli scenografici con cui mi esercitavo a recitare la vita, approntavi il fondale, lo spazio della finzione, stendevi il velo, lo risollevavi nei trasalimenti estetici che mi facevi vivere in montagna; una volta la testa prese a girarmi forte, in cima, alla vista del lago laggiù sul fondo, ricordi? Prima, tutta quell’immensità, quello spazio puntellato dalle vette, poi, di colpo, il lago ridotto a una pozzanghera e io enorme, la sferzata destabilizzante di un elastico percettivo a cui tu avevi rimediato con un po’ di vino zuccherato.
Continuiamo a morire e non ne siamo capaci.