Poesia e fulgore. “A sciame” di Maria Grazia Insinga, (Arcipelago Itaca, 2023)

Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

 

A sciame non è solo dell’andare delle creature alate che scrivono traiettorie leggere e transitorie nell’aria, ma anche delle scosse telluriche che crepano la terra e si accompagnano a eruzioni violente (“il carattere aggressivo per le scosse / continue le eruzioni sputata dritta / dritta dal camino centrale” p.31) con fuoriuscita di materiale incandescente a lungo celato nelle viscere: una doppia allusione – ma l’ambiguità è una pratica consolidata nel gesto scrittorio dell’autrice –  a oggetti segreti della sfera emotiva e figurale che incalzano e traboccano disordinatamente e al disporsi delle parole che si raggruppano secondo un ritmo incalzante di allitterazioni e iterazioni e rime interne di forte impatto uditivo, come per giustificare musicalmente il deragliamento dei significati.

Alle profondità ctonie si affiancano quelle delle acque, simbolo, per la psicologia, dell’inconscio, degli strati più nascosti della personalità, «vale a dire quei contenuti che hanno a che fare con la fecondità e le energie vitalistiche di cui dispongono, nell’interiorità, i mondi delle madri». Attraverso questa lettura femminile del mare va interpretata la presenza del pesce-madre (in cui si potrebbe scorgere la fisica ambiguità della Sirena) nei versi di Maria Grazia Insinga che ama, come già nelle raccolte precedenti, il richiamo ai miti, così fortemente intrecciati all’ambiente geografico in cui vive: la cittadina di Capo d’Orlando (un tempo Agatirso, dedicata al culto di Dioniso) che rimanda alla leggenda del paladino Orlando, che qui si sarebbe fermato prima di una crociata in Terra Santa, luogo di incontro tra varie civiltà, sede dalla fine dell’Ottocento di Villa Piccolo, spazio raffinato di scrittori, magie, visioni oniriche, mondi semipagani, piante e fiori esotici.

Lo stesso nome di Capo d’Orlando consentirebbe all’autrice quel gioco verbale tra i sinonimi capo e testa, che già commentammo nella raccolta precedente Tirrenide, e che qui si ripropone nell’atto insieme vendicativo e auto-assolutorio della decapitazione, ossia del troncare la radice dell’experiri sentimentale e del dire s-ragionando; mentre Orlando, oltre a richiamare la storia dei paladini, appartenente alla cultura popolare siciliana, potrebbe rifarsi al titolo di uno dei romanzi più enigmatici di Virginia Woolf, in cui il femminile rinasce dalla sue tante morti a ogni capo di secolo, immarcescibile, sempre diversa, sempre inafferrabile.

A sciame potrebbe, allora, essere letto come un poema del paesaggio orlandino nel suo farsi nel tempo, una sorta di cosmogonia in cui i quattro elementi dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco raccontano le infinite mutevolezze dell’Essere via via arricchite da un pronunciamento musicale. Nomi di piante, fiori, creature marine e terrestri, a cominciare dalle più remote ere geologiche, simboli di sacralità e di storia quali templi pagani e santuari cristiani, turbati paesaggi contemporanei si mescolano in un’indifferenziazione pre-apocalittica, presagio di un ritorno allo zero, se è vero che l’umanità è chiamata a sciamare da questo pianeta e ricominciare in altri prima o poi a loro volta inabitabili, in un inseguimento perenne della morte.

Lei e l’altra (l’altra da sé, l’altra di sé, la parola, la musica e/o tutte queste cose insieme e anche di più) sono anch’esse due isole-pianeti, distanti, isole senza mare attorno: l’altra, ogni volta che viene nominata si fa ancora un’altra, se è vero che ogni sguardo gettato indietro o ripetuto muta la memoria e la sua natura proteiforme che affonda e salva, sbiadisce e sfolgora, assolve e condanna.

Il vivente e il vissuto si trasformano in suono, che sosta un poco nell’orecchio e poi sciama verso il nulla. E questa soltanto, forse, vuole essere la funzione della poesia, se essa non può dare senso, né creare legami definitivi tra le cose, visto che non esiste “nel giardino planetario nessun grado di verità” (p.80), nessuna salvezza e un’indomabile tigre fulva da sempre distrugge e “inghiotte il mondo” (p.80).

Tra le raccolte poetiche di Maria Grazia Insinga, A sciame appare la più amara e devastata, una sorta di “caduta libera” fuori da ogni sacralità che non sia il nulla effimero dei fiori, il cromatismo dei cieli, la beltà della beltà. Il tono si fa quasi blasfemo nel negare ogni trascendenza, nel leggere in ogni cosa una bestemmia (“… e il possibile / è una bestemmia e tutto lo è e lo è / la puzza del crollo prima del crollo” p.48), nel distorcere formule religiose come  in “e ti assolvo madame / nel nome della datura / del padre e del giglio” (p.62), nel negare ogni trascendenza, ogni divinità che non sia la poesia, la sola  che “vede il buio nella luce e luce / nel buio solamente ed è l’ultima  / carta o cartuccia e spara forte / non ha mezze parole né quarticini” (p.71).

Maria Grazia Insinga (Milazzo, 1970), dopo la laurea in Lettere moderne, il Conservatorio e l’Accademia musicale si dedica all’attività concertistica. Attualmente è docente di Pianoforte presso l’Istituto “Giovanni Paolo II” di Capo d’Orlando. Sue poesie sono state tradotte in romeno, francese, inglese, spagnolo e russo. Tra le sue pubblicazioni: Persica (Anterem 2015); Ophrys (Anterem 2017); Etcetera (Fiorina 2017); La fanciulla tartaruga (Fiorina 2018); Tirrenide (Anterem 2020).

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