Poesia e fulgore. “In comode rate” di Beatrice Zerbini, (Interno Poesia, 2022)

Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

 

 

 

 Sprezzatura e leggerezza: la poesia di Beatrice Zerbini

          Con quale sprezzatura, con “quale graziosa enfasi dell’incuranza” e “ritmo morale” propri di un’accettazione del destino (come direbbe Cristina Campo) Beatrice Zerbini incede fra i versi a volte lunghi, a volti spezzettati in minuti frammenti che si dispongono sulla pagina come a cercare la pausa di un respiro, specie quando si parla di assenze irreversibili o insopportabili, di solitudine e medicine per la depressione.

          Eppure la maggior parte dei testi, nell’assumere il facile ritmo delle filastrocche, ora sembrano sposare il sorriso del lusus, ora la suggestione di quei racconti fantastici che gli adulti ci raccontavano quando eravamo bambini, spesso popolati di orchi e streghe e magie e incantesimi, da cui però ci si aspettava una felice conclusione.

        Nonostante l’autrice metta in scena amori drammatici, quello che, infatti, resta sul palato di chi legge è il sapore di quella speciale gioia, di cui parla Rilke, che nasce quando si dà il proprio assenso alla vita, così che, nel rappresentare le cose negate o perdute, accade come un ribaltamento di intenti: quelle cose, una volta digerito il dolore, lasciano il posto alla memoria dei giorni gioiosi della pienezza, dello scambio di gesti e parole. La solitudine si riempie e non di fantasmi, ma del tepore degli affetti. La fine non è una fine, se la poeta continua ad amare, a pronunciare le parole che spettano solo agli dei: mai, per sempre. E se fa scorrere all’indietro le lancette del tempo per guardare ancora e ancora il passato, per convocarlo e quasi benedirlo, perché comunque è stato vissuto.

        A volte l’autrice ironizza, invoca, insegue immagini di gioia, prega e dice grazie, anche se non sa bene per cosa. E soprattutto non smarrisce mai la consapevolezza di esserci, di fare parte della compagine umana, e soprattutto crede così tanto nella forza dell’amore, che parteggia per gli innamorati, augura agli altri la pace delle conciliazioni, benedice i piccoli gesti della quotidianità, quelli che ripetono ogni giorno la vita, “piccola e immensa”.

          La poesia ha temi sempre scontati, è vero, ma è il modo con cui Beatrice li canta a renderli nuovi: quell’impasto linguistico tutto suo che d’improvviso introduce uno scarto nello svolgersi dei pensieri grazie ad  un verbo o un sostantivo “fuori luogo”, un aggettivo impensabile, un’immagine insolita, una chiusa lampeggiante, e certe analogie sorprendenti, che danno forma ad un’intera poesia, come quella in cui (pag. 51), paragonato il suo amore ad una chiesa, fa dei suoi occhi “vetri colorati”, e delle vie per raggiungerlo tre navate, caratterizzando il lessico con parole quali: altare, lodi, vespri, pulpito e così via, quasi mimando le poesie-metafore barocche, ma senza effetti teatrali ed artificiosi, quanto, invece, di piacevolissima freschezza e verità, ubbidendo non all’intento estetico della meraviglia ma a quello etico della sacralizzazione del sentimento amoroso. Tutto questo è ben lontano, infine, dalla superficialità, piuttosto è accostabile a quella leggerezza di memoria calviniana, che non è una forma di estraniamento, ma un modo di elevarsi “sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza”. 

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