Poesia e fulgore. “io parlo dai confini della notte”, Forugh Farrokhazad, (Bompiani, 2023)

 

Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

 

 

«Io parlo dai confini della notte/ dal termine del buio/ e parlo/ dei confini della notte»
(Forugh Farrokhzad)

 

 

          Ogni verso di Forugh Farrokhzad è un gesto rivoluzionario: Forugh è la prima poeta iraniana del Novecento a capovolgere, nella sfera della sessualità,  il ruolo della donna da oggetto passivo («dovunque andasse le cantavano all’orecchio./  “La donna fu creata per puro godimento”») a soggetto attivo; a fare coincidere l’io lirico con quello biografico, a sfidare la condanna del potere e i tabù etico-religiosi, rendendo pubblica la narrazione delle proprie esperienze amorose, compresa quella dell’adulterio, con la chiara consapevolezza della trasgressione commessa (quasi in ogni testo della prima raccolta Prigioniera troviamo gli aggettivi  ‘peccaminoso’, ‘peccatore’ e i sostantivi ‘peccati’, ‘vergogna’, ‘infamia’) accompagnata, però, da una reazione di sfrontato orgoglio e dalla convinzione che l’amore, se accade, debba e possa travalicare ogni norma, essendo la sua una potenza ineluttabile e tremenda.

Quella di Forugh Farrokhzad è una posizione, che per essere compresa totalmente, va comunque messa in relazione con la passione incondizionata nutrita per la poesia quale strumento di verità, in una perfetta coincidenza fra esigenza di libertà espressiva, movimento febbrile del pensiero e fuoco interiore, fra il ruolo estetico e quello etico-politico, quest’ultimo apparendo ancora più rivelante in rapporto anche alla recente storia dell’Iran, e non solo.

Ogni lettore della poesia di Forugh dovrebbe partire, per comprenderne intenzioni ed obiettivi, dalla ‘Nota’ che la poeta compose in risposta all’indignazione suscitata dalla pubblicazione in una rivista di Teheran di alcuni suoi testi d’esordio negli anni cinquanta. In essa sono citati molti poeti iraniani che, pur avendo esposto identiche affermazioni o messo in scena identiche situazioni amorose, non sono mai  stati condannati dalla comunità, cosa che sottolinea palesemente la disparità della reazione morale legata al genere sessuale: «So di non aver fatto nulla di straordinario, se non essere stata la prima donna a muovere un passo per spezzare questa catena di vincoli che legano le donne. Questo è il motivo di tutto il clamore che mi circonda. Se altre mi avessero preceduto, i lettori oggi accoglierebbero la mia poesia con molta più serenità».

Ma, allo stesso tempo, sarebbe un errore considerare gli esordi della poeta iraniana come l’approdo di un pensiero che, invece, ha percorso, in pochi anni, una traiettoria evolutiva particolarmente evidente nelle raccolte Una rinascita e Crediamo pure all’inizio della stagione fredda, sia per la qualità della composizione formale -grazie ad un confronto fitto e costante con la tradizione persiana e la poesia moderna specialmente europea- sia per un arricchimento della riflessione intorno alla spiritualità ed alla temporalità che ricolloca la dimensione amorosa all’interno di una dialettica  emotiva ed intellettuale  assai complessa.

È il momento, come scrive Domenico Ingenito in ‘Appendice’ a io parlo dai confini della notte (Ed. Bompiani), della «presa di coscienza della propria solitudine come donna e come essere umano che ricorda e accetta il peso della propria nostalgia. Si tratta della conquista di una voce capace di raccontare la polifonia di questo incontro con il passato che per Farrokhazad costituisce l’esperienza di un costante sfasamento». Anche l’amore è adesso sentito come un sentimento non solo legato ai sensi, al desiderio ed al piacere, ma come una relazione in cui fisicità e spiritualità si incontrano, aprendo, attraverso il corpo che riunisce in sé il dolore della finitezza e il desiderio di infinità, all’intuizione di una diversa dimensione  in cui  lo spazio-tempo cessa di esistere come prigione.

È dunque dall’ultima produzione di  Forugh Farrokhzad che si preferisce dare inizio a questa analisi, una volta considerata quella anteriore una sorta di lunga traversata necessaria al raggiungimento di una nuova coscienza etico-estetica.

La misura della maturazione poetica di Forugh sta tutta nella distanza dal grido di ribellione, a volte ostentato e propagandistico dei testi d’esordio: «Sei rimasta solo tu, donna iraniana,/ nei lacci d’ingiustizia, disgrazie e malasorte (…) diventa torrente di rabbia, odio e dolore,/ e rovescia la pietra dell’oppressione» (Canto di battaglia) a quell’angoscia che invade l’anima, quando, dopo essersi tesa oltre la soglia della carnalità, ricade disastrosamente nel vuoto di una solitudine che non ha né riparo, né risposta. Quando il sogno del noi, nonostante i bagliori della passione, cede ad una nostalgia non definibile: «Piangevamo l’uno sull’altro/ vivendo follemente l’uno nell’altro/ nell’istante inaffidabile dell’unione».

Ed è sempre alla luce del sentimento della nostalgia che va letta l’irruzione dell’infanzia nei versi della raccolta Una rinascita come il tempo in cui il sogno splendeva intatto, quando acacie e papaveri offrivano soltanto la grazia e la bellezza dell’Origine, quando ancora il sangue del mestruo non aveva sporcato la linea di confine tra innocenza ed iniziazione sessuale: «memoria del mio primo mestruo,/ quando le membra si aprivano/ a uno stupore innocente/ a mescolarsi con quell’indecifrabile,/ con l’ambiguo, con l’oscuro». Passato e presente, confondendosi insieme e scombinando l’ordine cronologico, accentuano non solo la transitorietà ma l’illusorietà di ogni vissuto, generando un drammatico dediderio di annullamento: «io desidero/ lasciarmi straripare/ io desidero farmi pioggia/  che scroscia da quella grossa nuvola/  io desidero dire no,    no,         no,    no,// Andiamocene/  bisogna dirlo/  il calice oppure il letto,/  la solitudine o il sonno?/ Andiamo via…»

La poesia ha abbandonato il tono impudico della provocazione per assumere quello di un’indagine esistenziale che si risolve in uno scacco generale. Più volte ormai l’autrice si rimprovera la disattenzione dei suoi anni giovanili, la superficialità con cui ha sciupato molto del suo tempo («Questa non sono più io, non sono io,/ e che pena di quella vita che con me trascorsi») e che solo l’esercizio responsabile della scrittura può medicare: «Ascolta, mi unisci al fervore della poesia/ riversando fiamme nei miei versi,/ mi hai bruciata poi nella febbre dell’amarti,/ per poi incendiare il mio canto con il fuoco».

Forugh Farrokhzad non abbandona neanche nelle sue ultime raccolte il tema politico, ma lo rimanda a quello scacco esistenziale di cui si parlava prima, se è vero che lo scontro ideologico, pur avendo radici storiche, si gioca tutto nel contrasto fra l’innocenza del sogno e la volgarità del potere.

Niente, se non l’infanzia salva. Ed è forse questo candore, meglio questa ingenuità (intesa come nativa, nata libera, da latino in e genus) a costituire la chiave di lettura della poesia di Farrokhzad. Essa la trascina, l’accende come una fiamma, la getta ogni volta tra le braccia dell’amante-amato celebrato con immagini  di un vertiginoso lirismo sensuale, le fa tremare il cuore «pazzo ed esaltato», mentre intuisce, come solo i fanciulli sanno fare, l’inconcepibile segreto del mondo.

Così il gesto della scrittura passa dallo scandalo alla religio, pur evitando il misticismo. La sua religio, infatti, è piuttosto una mappatura memoriale, grazie alla quale luoghi ed eventi, biografici e no, trovano, una volta consegnati alla cantilena dei versi, l’assenso di un’estetica che si fa etica.

Del resto, al di là di ogni merito, i versi della poeta iraniana si imprimono nella memoria per l’altissima maestria della trans-figurazione metaforica, così che, pur permettendo al lettore di rintracciare eventi della biografia dell’autrice e della storia iraniana, di visualizzare certi poetici scorci cittadini (giardini, piazze, porticati, vicoli, mercati in cui irrompono bimbi, donne, innamorati, amici, venditori, animali, piante), finisce con il generare uno spalancamento verso il movimento stesso della vita, verso l’amara ma sorprendente duttilità con cui essa eternamente si mette in scena. È, insomma, quel traguardo di universalità che solo la grande poesia sa raggiungere.

 

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