“Avanza un’ora di luce” di Enzo Cannizzo. Coscienza e “volizione” percorrono versi sanguigni come «crepe aperte sul domani».

Coscienza e “volizione” percorrono versi sanguigni come «crepe aperte sul domani», come «labbra/ incise sui basalti/ di un cielo caduto», come «mistero di nervature e pigmenti», come «mercurio in corsa per la cavea». Parliamo di “Avanza un’ora di luce”, nuovo libro di Enzo Cannizzo, pubblicato da “Algra”, nella collana di poesia “Ginestra dell’Etna”, diretta da Maurizio Cucchi e Antonio Di Mauro. Un volume d’urgenza espressiva e testimoniale, ipnotico figlio di un «cielo in catene». Una voce “fonda”, come scrive Miguel Ángel Cuevas nella nota introduttiva, che, resistendo alla deriva dell’assoggettamento, non manca di sperare “un’eco sommessa, la traccia di un bagliore”, d’identificare, ardita, un’idea: «il tramonto vive di rendita».

Partiamo dal titolo, perché, oltre ai riferimenti, Avanza un’ora di luce? E, cosa può la poesia perché non smetta di avanzarne?

Era il tempo del carcere duro senza aver commesso il reato, del lockdown. Era primavera, già lunghe le giornate. Alle 18.00, in piena luce, un silenzio da serie zombie rendeva più netto lo scricchiolio dei mobili, lugubre il canto delle rondini impazzite, naturali le liti per strada tra i pazzi e le loro voci di dentro. Dai balconi subivamo lo spettacolo di noi stessi allo specchio decisi a rinunciare alla sanità di testa nel barattarla – dicevano, dicevamo – con qualche ora di vita a venire. Ci siamo promessi l’Apocalisse: forse l’apocalisse siamo noi che ci ostiniamo a rappresentarla in maiuscolo, animata da cavalieri, da spade in fiamme, da conseguenze. Il reale, quella cosa che esiste solo attraverso le sue relazioni, è meno pittorico, reca un orrore silenzioso di abitudine al dominio, al consenso, alla violenza. La gabbia ha creato il mostro. In occidente – postaccio nel quale l’ignoranza, ne sono convinto, è una colpa – è un calvo con la crestina accompagnato da una donna vestita solo di stivali e devozione, si nutre di spritz e sushi, in nome del santo che reca tatuato sull’avambraccio, termina chi guardi storto lo scooter alato sul quale attraversa i territori. C’erano già? Certo, ma ora è diverso. Sono modello trasversale, ambizione alla quale pervenire. Il male non è mai stato così banale. Quell’ora di luce non è più piatto ricco di primizie, ma avanzo, nutrimento odoroso destinato a farsi guasto e veleno, ad ingrossare i fiumi di percolato che guadiamo senza più provarne orrore.

La poesia può destare lo scoglio sopito, le coscienze?

Lo scoglio sopito, nel mio immaginario, è pietra che abita acque morte, chiuse, senza ricambio. Ma, in natura, anche lì qualcosa accade. Il lichene, il principio del due che si fa uno. Staremo a vedere, starà a vedere chi farà in tempo.

già un deserto infuria verso sera/ nel cavo in fiamme tra le mani/ protese a raccogliere il tramonto, con i tuoi versi per chiederti cosa può la poesia “contro” la “pensosa” solitudine del poeta?

Forse i poeti dovremmo tutti tornare a leggere. Il Devoto-Oli soprattutto. Scoprire le parole dimenticate o mai a noi note, subirne il fascino, lasciare che ci rapiscano nuovi suoni, nuovi urti semantici e rumori inaugurali. Essere umili, curiosi di fronte all’universo che è, per sua natura, magmatico, musicale. Quest’anno ricorre il centenario dalla nascita di Angelo Maria Ripellino: solo pronunciare il suo nome, apre già un varco verso la meraviglia di una parola in grado di rendere quotidiana la meraviglia della favola e uccello esotico lo strazio del quotidiano. Innanzi a questa insonne fabbrica di stupore che chiamiamo parola, forse, la poesia dovrebbe smettere di consolare, farsi leggera come bisturi, costringerci al midollo per meglio godere della polpa.

Qual è oggigiorno il (primo) dovere critico della poesia?

Abitare gli interstizi, frequentare ciò che è oscuro, relegato ai margini del sé. La notte è diventata un’abitudine, turismo di massa per vicoli che hanno perso ogni mistero. La parola poetica può solo ridare voce al buio, agli spettri. Il resto, io credo, è consolazione. Formattata Ikea dell’interiorità, conventicola, tavernetta in stile nella quale ospitare i propri demoni d’affezione, il fine settimana, per scambiarsi carezze mai contropelo.

E, ancora, con Esenin chiedo: un poeta “può restare indifferente quando la libertà è colpita” e quindi pensare di professarsi poeta nella totale “cecità” del presente? Pensando alle stagioni del tuo imperturbabile volume ti chiedo: la contemporaneità del poeta è forse la sua condanna ad essere “condotto dal tempo”?

Il presente è cieco per definizione, non va oltre sé stesso. Come ogni corpo, si definisce attraverso il contesto che, a sua volta, contribuisce a definire. Il poeta è cieco in ogni istante nel quale guardi a sé stesso. Gadda, al quale tutti dobbiamo qualcosa, ci ricorda che l’io è il pidocchio dei pronomi, parassita – temo – dominante in molta scrittura di questo tempo – la mia per prima, intendiamoci –  troppo spesso impegnata nella semplificata e contagiosa – perfettamente in grado di costruire immedesimazione e consenso – rappresentazione dei propri umori gastrici, di disamori banalotti e senza tragedia. Canzonette che si prendono sul serio, insomma, senza la metrica perfetta di Mogol e il canto strozzato e ironico di Lucio Battisti. Brancati, nel suo I piaceri, maliziosa mimesi di un diario, ci mette in guardia con leggerezza – senza mai farlo, quindi – intorno alla tragedia ridicola di una borghesia delle lettere ossessionata dal Profondismo. Ecco, forse noi poeti occidentali dovremmo smettere di guardarci dentro per tornare a guardarci di lato. Cecità è partecipare alla prassi di semplificazione del reale operata dai linguaggi, perfettamente tra loro simmetrici, del marketing e della politica. La poesia accade altrove. Forse nel controcanto, forse nella memoria, forse nell’archeologia del futuro: di certo è prassi anticonformista e rigorosa dell’inesauribile malia della parola.

Scegli tre poesie dal tuo libro. Di queste indicaci la più significativa/propulsiva rispetto alla nascita del tuo nuovo lavoro.

Avanza un’ora di luce ha una struttura più organica rispetto a Il cielo pende dai lampioni, più che una silloge, un poemetto in tre movimenti – a loro volta rotti in frammenti per esigenze raramente di senso, quasi sempre sonore – che ha come esito ciò che consegue alle malcelate dimissioni di Dio da una eternità nella quale i Cherubini abbiano assunto la prossemica di onnipotenti e annoiati uscieri di un ente pubblico in sfacelo.

TTi indico quelle forse a me più care:

la risposta di maggio fu la rosa
la sua carne puntuale

mistero di nervature e pigmenti
millennio rivelato sui banchi della fiera
*

all’estate il rimorso
alla pioggia la vertigine

la notte è deserta poche stelle
vedranno la vendemmia

la mattanza di sguardi
nelle ore di san lorenzo

*

il basilisco la chimera il tirafiato
il dittongo lo iato la malora

il gheppio l’allocco la poiana
la gazza che becca la carogna
affilata dell’istrice arrotato

ovunque il cielo attecchisca
il tramonto vive di rendita

*

era il condominio gremito di sguardi
l’infame il ladro il baccelliere
l’orfano la guardia il biscazziere
l’ovvio l’insulso il grassatore

all’ambio incedevano i rotori
cavi gli occhi schiavi della folla
mercurio in corsa per la cavea

il verde il bruno il vaio
la mota il fabbro il mangiafuoco
l’aneto l’averno il rogo
cedeva la rosa alle nevi all’inverno

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 03.12.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

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