Poesia e fulgore. “La stagione accanto” di Rossella Caleca, (Samuele Editore, 2021).

         Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

Intorno al concetto del “noi” si avvita il discorso poetico di Rossella Caleca nel racconto dell’accanto – inteso e come prossimità spazio-temporale e come desiderio relazionale – smembrandosi secondo due direzioni diverse, quella autobiografica e quella civile, per poi assemblarsi in una sola, vibrante coralità.

Accade infatti che, dopo il racconto di una sorta di saga familiare, alla ricerca di una concreta ragione del proprio essere al mondo -a cominciare dal punto di partenza, che è l’infanzia edenica per sempre perduta-  attraverso l’apertura all’incontro con gli altri da sé e dal proprio gruppo parentale, si giunga nel testo di chiusura alla consapevolezza di essere “corpi svelati/ l’uno all’altro nascenti” che costituisce il punto più alto di accoglienza e compassionevole epifania di innumerevoli altre storie private, ciascuna con i propri tagli sulla fronte, come racconta l’autrice nel suggestivo testo che apre la raccolta.

L’amalgamarsi, come si diceva prima, della propria vicenda esistenziale con quella degli altri, è evidenziato soprattutto dall’impossibilità per il lettore di cogliere un cambio di passo stilistico, a testimoniare come l’autrice lavori sempre la propria materia senza altro fine che lo stesso dire poetico, cancellando ogni antinomia fra ragione etica ed estetica.

Ne consegue che un dettaglio della natura così come la tragedia della morte per acqua di tanti emigranti siano raccontati con lo stesso occhio attento e commosso perché facenti parte di un ininterrotto alternarsi di apparizione-sparizione, necessitante per approdare alla salvazione, e di un’esplorazione della parola poetica all’interno di quella fessura di sospensione in cui il tempo lascia spazio ad una sorta di trasognamento o memoria nostalgica dell’intero.

Si tratta di una postura acquisita probabilmente fin dall’infanzia, identificabile con  un’istintiva riparazione dell’assenza, che, fra l’altro, mi sembra costituire uno di quei  fili sommersi che sostanzia la poetica di Rossella Caleca. Nel testo “1919”  l’autrice, raccontando il proprio rapporto con il padre amatissimo, scomparso troppo presto, si prende cura del vuoto affettivo attraverso lo slancio dell’immaginazione e l’appagamento del sogno, mentre constata l’involontario, quanto concreto passaggio dal padre a lei di certe espressioni gestuali. L’ereditarietà di caratteristiche fisiche, caratteriali, comportamentali da una generazione all’altra, caratterizzando il collante dei testi della prima sezione dedicata alla propria storia familiare, anticipa quella consapevolezza, attinente alla sfera storico-civile, dell’inevitabile connessione fra tutti gli individui e le creature viventi, prospettando un desiderio amoroso capace di travalicare lo spazio e il tempo. Quest’ultimo, a cui già allude il titolo della raccolta La stagione accanto, non è però il soggetto del dire come potrebbe sembrare ad una prima lettura, tanto abbondanti sono i riferimenti al passato, alla ciclicità delle stagioni, alle ore del giorno, agli istanti (quante volte nei versi troviamo l’avverbio di tempo “ora”), quanto piuttosto la cornice entro la quale il passato scivola nel presente per proiettarsi nel futuro in un unico umanissimo affresco di dolore, paura, bisogno d’ascolto e d’amore. Uno dei testi più belli, in questo senso, è “I  Santi” (pag. 27) dedicato a quanti -soffrendo di un disagio psichico- vengono addomesticati dalle medicine -la loro “eucarestia molecolare”-  che li avvia verso  “un Lete precario” fino ad “nuova insurrezione”. 

Il miracolo della trasformazione per cui delle vite considerate marginali vengono identificate con quelle dei santi dipinti da tanti pittori di ogni epoca in stupende teorie di immagini, è avvenuto grazie alla Parola poetica, che ha sostituito ai nomi del male e del rifiuto quelli di un’area semantica opposta, in cui sfolgorano lemmi come santità e sacralità. È quello che  in La Terra Santa fa la Merini, quando, parlando della sua esperienza in manicomio, scrive: “noi siamo restati/ angeli uguali a quelli/ che in un giorno d’aurora/ hanno messo le ali”. Ne consegue che il vero dolore è la parola comune e pregiudiziale che esclude e condanna, cadendo dentro la sua voragine definitoria, dalla quale può essere salvata solo dalla carità della parola poetica, a cominciare dallo spostamento dei suoni dal vano e distruttivo rumore ad un equilibrio armonico e dalla cucitura di cose apparentemente lontane nell’empatia semantica e iconica della metafora. È qui che il male non scompare dal mondo, ma diviene quel rischio su cui la poeta scommette.

Di metafore sono appunto costellati i versi di Rosalba Caleca, sia per sollevare il dolore dal suo peso concreto, sia per annunciare una possibile gioia, ché, di fatto, in molti dei testi della raccolta, buio e luce si fronteggiano senza mai annullarsi, e non c’è notte a cui non segua l’alba e viceversa, e non si dà una stasi che non prefiguri un volo, né si nominano coltelli che non possano mutarsi in gigli. Perfino quell’ “odore  molle di disamore” che uccide e frantuma corpi di donne dà luogo ad una transizione verso un’altra forma di continuità: come poi possa tenere “assieme le cose/ la luce sui muri delle case” “Non è dato sapere”, scrive la poeta che conferma come il ruolo del poeta sia quello di trovare “nel mondo le grandi figure che rispecchiano il suo destino d’uomo dilacerato e conciliatore, delle quali il poema dovrà ripetere il tracciato”, come scrive Jean Starobinski, commentando i versi di René Char. Tali figure sono rintracciabili ovunque nell’accanto del reale, prima fra le altre il mare, che completa la triade su cui si dispiega ogni prodotto creativo: la materia biografica (nella quale va compresa anche la dimensione civile dell’esistere), la formazione culturale e la geografia, intesa, quest’ultima, come un insieme di sollecitazioni sensoriali e fantastiche evocate dalle caratteristiche del locus di elezione. Si potrebbe perfino affermare che proprio l’elemento del mare, attraversando le prime due componenti della triade, riesca ad immettere nella poesia di Rosella Caleca una circolarità linguistica ed immaginifica di grande suggestione.

Il mare in cui affogano i migranti (Altromare, pag. 29) è quello che viene raccontato dalla cronaca giornalistica e televisiva: nero e notturno, ha perduto quel colore di vino cantato da Omero, ora che è venuto meno il principio proprio alla civiltà classica della sacralità dell’ospite e l’accoglienza ha ceduto il posto al respingimento legale e all’indifferenza etica; il mare è anche la voce che da sempre ha versato il suo mutevole suono nelle orecchie della poeta (vissuta fin dall’infanzia accanto alla sua liquida vastità) finanche durante il sonno (“una lingua residente nel cuscino/ insinuata tra i capelli”), suggerendole infine l’altro naufragio (inevitabile per ogni poeta): perdere se stessi per farsi ascolto.

Di questa circolarità si fa testimone, come si diceva prima, l’omogenità stilistica di quasi tutti i testi dedicati al mare che ricorrono pressapoco alle stesse immagini. Per un esempio pregnante, indicherei due di essi: quello che ha per titolo Stabilità (pag. 38) e l’altro poco prima ricordato Altromare (pag. 29) in cui il buio della notte, “il nero dell’acqua” e l’impossibilità di “navigare a vista” ricreano una situazione assai simile, ma con un intento comunicativo del tutto diverso. Infatti, se nel secondo l’autrice vuole stigmatizzare un evento della cronaca contemporanea, nel primo desidera rappresentare una percezione dolorosa di stallo amoroso: “L’onda lunga ci ha preso/ in una pozza, sfiatando/ onde regolari./ Non avremo/ altomare”. Ora, mi sembra che proprio questa “discorde prossimità” lessicale, se vogliamo così chiamarla, sottolinei la grande fiducia che l’autrice ha nella capacità della parola poetica di creare senso grazie anche a minimi spostamenti, che aprono fessure semantiche inattese, oppure ombre interpretative tanto ambigue quanto fascinose, visto che dalla poesia non ci si deve aspettare tanto una lezione di metodo conoscitivo quanto un modo di vedere “cose sapute,/ ora più esatte e nuove”, come scrive Pieraldo Marasi citato in esergo.

Trovo particolarmente felice la scelta delle due citazioni inserite in La stagione accanto di Rossella Caleca,  tanto sono aderenti ad una precisa funzione esplicativa sul mestiere del poeta: esattezza e novità del linguaggio, come si è commentato a proposito dei versi di Marasi, e positività etica del canto, al di fuori di ogni credo religioso, in quanto volto alla festa della vita nelle sue fioriture cicliche,  “reprimendo i lamenti” ed il turbamento soggettivo di fronte alla fine della propria singolarità, come suggerisce la seconda citazione da Il porto di Toledo di Anna Maria Ortese, e come raccomanda il poeta latino Lucrezio con il suo meraviglioso incipit, che è un affresco della gioia della stagione primaverile che torna ogni anno con la sua forza vitale nonostante la morte anche violenta, nonostante il taetrum odorem e i rancida cadavera della peste; e che è poi il messaggio affidato al testo Moltiplicazione, in cui all’avanzamento del tempo che guasta, ai lamenti, appunto, viene contrapposta, come scrive Gabriella Musetti in prefazione, una “rinnovata relazione con le amiche sagaci”, “fonte importante di sostegno e di equilibrio”, giusto per sottolineare quanto si è venuto dicendo, sulla scorta dei versi della poeta, intorno al “noi” come fulcro generativo di vita autentica, al di fuori di ogni limite egotico, “tra corpi svelati/ l’uno all’altro nascenti”, versi già citati all’inizio di questa mia lettura ma che qui riscrivo per ubbidire anch’io all’architettura di echi e rimandi su cui è costruita la mirabile continuità di questa raccolta.

Essi, fra l’altro, mi suggeriscono due riflessioni: una estetica, riguardante il progetto grafico della raccolta, una seconda etica riguardante un ipotetico messaggio conclusivo  (e uso l’aggettivo ‘ipotetico’ perché, forse, del tutto soggettivo).

Questi versi, infatti, sono tratti dal testo a pagina 69, l’ultima del libro, dopo la nota biografica, l’indice e i titoli della collana Scilla della Samuele Editore e, dunque, in perfetta simmetria con il primo esergo da Pieraldo Marasi posto prima della copertina anteriore: e questa è, appunto la sua ragione estetica. La collocazione, invece, dopo l’elenco di tanti altri autori presenti nella stessa collana, potrebbe avere un significato meno palese e tuttavia non meno importante: quello di confermare la circolarità del ‘noi’ anche all’interno della vastissima comunità poetica per nutrire, crescere e moltiplicare l’ostinata amorevolezza nello spargere semi di luce sull’opacità del mondo.

 

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