Poesia e fulgore. “Lingua di mezzo” di Giuseppina Biondo, (Interno Poesia, 2023).

Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

 

          Giuseppina Biondo si è laureata in Filologia moderna presso l’Università Cattolica di Milano. Dunque è da sempre interessata al corpo e alla storia della lingua, al suo farsi specchio delle regole politiche, etiche, economiche del presente e, allo stesso tempo, dell’urgenza di trasgredirle per progettarne di nuove. Perché il mondo cambia le parole, ma molto spesso sono le parole a cambiarlo.

L’autrice insegna in una scuola superiore, e la scuola è senza dubbio l’osservatorio privilegiato per capire verso quale direzione stia andando la lingua. E, allora, “Lingua di mezzo”, se è vero che la lingua del presente è sempre di mezzo, sospesa com’è tra quella usata dalla vecchia generazione e quella parlata dai giovani, che, magari si trovano per caso a coniare termini nuovi, come il Roberto di uno dei testi che dice “intrenare”, volendo dare l’idea di un vivere entro regole fisse, senza sapere quale destino il suo neologismo avrà, se si diffonderà fra i parlanti o no, visto che, in fatto di lingua, è “sempre la massa a decretare, a rimanere/  A prevalere”. In altri termini, per fare uscire la propria lingua dal rischio di mistificazioni e mummificazioni, bisogna ascoltare quelli che tendono, per surplus di immaginazione o per necessità di adattamento al contesto, ad elaborare una lingua nuova: “la voglio sentire, registrare”; dichiara l’autrice, convinta che la questione sia una sola: comprendere il “pensiero che si fa linguaggio”.

Ma, prima di avere elaborato questi pensieri, già di fronte al titolo La lingua di mezzo ho sentito affollarsi nella mente, una dopo l’altra, una dentro l’altra, così tante associazioni che ho fatto una qualche fatica a registrarle e porle in relazione.

Da subito l’espressione “lingua di mezzo” mi ha rimandato al volgare dantesco in quell’età di mezzo (medio-evo) in cui per la prima volta uno scrittore cercava di convincere gli intellettuali che si poteva e doveva scrivere nella lingua del vulgus di ogni argomento: da quello più abietto e quotidiano degli umani vizi a quello più complesso e vertiginoso dei dogmi della teologia. E in questa lingua nuova Dante immetteva il meglio di tutte le parlate regionali, introducendo per la prima volta il concetto di appartenenza ad una lingua comune. Dobbiamo ammettere che fu una bella intuizione da parte sua, ma non così sorprendente come sembra. Dante aveva semplicemente capito che il potere politico-economico era nelle mani della borghesia, la cui lingua quotidiana era il volgare e che quest’ultimo sarebbe diventato la lingua della nuova cultura borghese. Dante, così umile di fronte a Dio, era un uomo superbo e si autogiudicava uno dei poeti migliori d’ogni tempo, erede dei classici. Uno come lui aspirava al successo e si augurava di essere letto dalla larga platea dei nuovi arrampicatori sociali. Una cosa gli era chiarissima: che la lingua è un fatto politico.

Dopo queste considerazioni, per una di quelle strane combinazioni possibili alla mobilità del pensiero (“di pensiero che si fa linguaggio”, come scrive Giuseppina), mi è venuta in mente anche “la terra di mezzo”: quell’universo immaginario creato da Tolkien con le sue fantasiose storie che, per ammissione dello stesso autore, “si svolgono ad un differente stadio”. Forse il filo conduttore fra le due cose è che la lingua di mezzo corrisponde sempre ad una terra di mezzo, che va battezzata con nomi diversi. Quando l’autrice, a tarda sera, passa davanti all’edificio vuoto e muto della scuola dove lavora comprende che insegnare è “come guardare le stelle/ progettare/ incipiare l’età adulta”, e, giusto per sottolineare questa luminosa intuizione, inventa un neologismo assai pregnante: “incipiare”, che è un latinismo. 

A questo punto vorrei aprire una piccola parentesi sulla retorica delle lingue morte, visto che le scienze di fronte a fenomeni o scoperte fanno uso (oltre che della lingua inglese) anche del latino e del greco antico per coniare nuovi termini. Dunque, la terra di mezzo non è identificabile né nel prima né nel dopo. È una condizione perenne, una pronuncia di fedeltà e insieme di trasgressione, un viaggio che attraversa lo spazio-tempo, nel tentativo di dare al mondo “una nuova grammatica” per ridirlo, per condurlo un po’ più in là nel sogno.

Vuol dire pure che la lingua di mezzo non ha bisogno di gettare alle ortiche la tradizione, ma di rinnovarla adattandola e, dove necessario, uccidendone parti ormai senza linfa, come si pota un albero dei suoi rami secchi.

E veniamo adesso ai due punti dolenti che hanno scatenato sui social, poco dopo l’uscita del libro, un’aspra se non un’esasperata reazione. Il primo è il testo che si può leggere a pag. 94, in cui l’autrice si arroga il diritto di usare transitivamente verbi che nella grammatica italiana vigente non lo sono, ma che pure sono transitivi nel dialetto siciliano. Per quanto mi riguarda, ho subito pensato: Cosa c’è di sconvolgente? I poeti lo fanno da sempre. “I poeti sperimentano linguaggi”: scrive l’autrice.

Il secondo punto dolente sembra essere l’uso dei segni grafici * ed ǝ (o schwa). Non credo sia il caso di indignarsi tanto, visto che, facendolo, l’autrice ha voluto sottolineare il maschilismo, diciamo così, della grammatica, del resto eleborata ab initio dagli uomini per gli uomini (anche il principio creatore è maschio -si dice- contro ogni evidenza). Le tre ragazze della 2B, che hanno scritto a mo’ di prefazione al libro una lettera, si chiedono, come pure mi sono chiesta anch’io, ma “utilizzare il maschile per una platea composta soprattutto da donne, non è già una distorsione?”. Per non parlare di professioni che hanno solo il maschile, perché prima precluse alle donne: sindaco, assessore, architetto, e così via, per le quali non esiste una declinazione al femminile. In sintesi: l’involuzione del pensiero, l’esclusione sociale, il pregiudizio sessuale cominciano dalla lingua.

In questo senso mi pare debbano leggersi anche le poesie d’amore dedicate ad una donna, motivo anch’esse di riflessione sull’identità sessuale, oggi sempre più fluida. Quella donna potrebbe essere reale: chi può affermare che non lo sia? Però io credo che questo fare all’amore “con lingua e saliva”, si riferisca soprattutto al corpo della lingua che è “di tutt* e di nessun*”, lingua che si prostituisce, libera, che solo se non definita può trovare “l’infinito nel rele”.

Ma la domanda è anche un’altra: tutto questo è poesia? Risponderò con altre domande: fu percepita come poesia quella dei futuristi, quella degli Avanguardisti, dei Poeti visivi nell’epoca storica in cui scrissero?

O forse è un trattato linguistico che sceglie la brevità dei versi? O una prosa che si volta più volte andando a capo, se è vero, come scrive l’autrice, che voltarsi vuol dire farsi nuovi tutte le volte, ricominciare a guardare? È una provocazione? Certamente è una forma nuova, audace e profonda, che comunica con ironica ed appassionata intelligenza il proprio messaggio di apertura e libertà espressiva come veicolo di un pensiero nuovo, più flessibile e inclusivo. Repetita iuvant, dicevano i Latini: la lingua è innanzitutto un fatto politico. Il poeta e traduttore Fady Joudah così scrive: «fuori dal labirinto dei poeti è fare l’inventario della memoria, cercare enunciati collettivi e stare contro la libertà dalla politica». 

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