#raccontinediti di DIEGO LIBRIZZI. Dal “Politicamente corretto” al “Rapimento”.

#raccontinediti di DIEGO LIBRIZZI

 

POLITICAMENTE CORRETTO

Capita spesso di imbattersi nella frase “politicamente corretto”, per indicare delle metodiche lavorative, di festa, di gioia, di essere uomo.
Ma siamo certi che vogliamo applicare tali metodologie alla nostra vita? Conosciamo e pratichiamo il significato di etica e morale, parole che contengono concetti direttamente connaturati al “politicamente corretto”.
Personalmente non gradisco questa frase, ecco perché ne parlo, per esorcizzare un valore che la società civile cerca di imporci solo per apparire e non per essere.
Se uno chiedesse ad un barbone la declinazione delle regole del galateo mettendolo innanzi ad una tavola imbandita di ogni ben di Dio, questo dimostrerebbe, in maniera opposta, il politicamente scorretto, ma no cari lettori, quello è il suo modo di vivere, quella è la sua etica; questa è l’infinita conoscenza della vita, intrinsecamente intesa.
Ebbene i tromboni che ancora blaterano di “politicamente corretto” sono quelli che hanno una miope visione della vita terrena (ahimè non conosciamo quella ultraterrena!) fermandosi a coltivare il proprio “orticello”, ritenendo quello il centro nevralgico di tutti gli interessi mondiali. Sic!
Per loro, aggiungerei, per loro.
Le metodologie che adoperiamo giornalmente sono figlie dei nostri costumi, di quelli che abbiamo imparato andando a scuola, al catechismo, frequentando gli amici per strada, quelli buoni e quelli cattivi (sempre secondo parametri sovraimposti).
Bene occorrerebbe spogliarsi e mettendosi nudi provando a comprendere cosa è il “politicamente corretto”. Adesso, nudo, il buon Tizio di turno come si sente? Ha perso tutte le sue sicurezze, ha abbracciato la lungimiranza del mondo, della vita, del creato.
Ecco che un giudizio, una critica, magari un singolo pensiero sono sintomi della formazione umana e culturale ma allo stesso tempo dimostrano tutta la loro relatività.
Gli esempi della relatività sono tantissimi per dimostrare che non esiste il “politicamente corretto”, uno dei giorni nostri è sicuramente illuminante.
I diavoli rosso neri hanno vinto lo scudetto e, come da tradizione (radicatasi per la cecità dei tifosi), la squadra, a bordo di un pullman scoperto, ha percorso le vie della città di Milano. I giocatori e tutto lo staff si sollazzavano per far gioire i tifosi intervenuti, allorché, ad un certo punto, viene tirato fuori un cartello con su scritto: “Inter la coppa Italia mettila nel c…”. Il delirio attraversava la folla festante; i tifosi più esacerbati salirono financo sul pullman per baciare ed abbracciare l’autore di cotanto pensiero. Fu una bolgia per ore ed ore! Terminata la manifestazione, sui social si scatenò il malcontento dei tifosi delle squadre avversarie, che si sono espressi anche loro in maniera “politicamente scorretta” laddove la critica meno accesa riportava: “…è diseducativo per i nostri figli che guardano”. Potenza dei social la vicenda arriva alle orecchie della FIGC che, come per magia, apre un’inchiesta perché lo slogan non è “politicamente corretto”, quello stesso slogan che aveva mandato in visibilio cinquantamila tifosi e i loro figli, che per l’occasione erano stati educati a dovere.
Allora ci si chiede dove sta il confine tra l’etica e l’antietica, la morale e l’immoralità, il corretto e lo scorretto. Nessun confine, quel confine è una linea Maginot che noi spostiamo sempre più in là e, grazie ai nostri idoli, ai nostri politici, ai nostri modelli comportamentali, facciamo sì che rientri nel “politicamente corretto”, ovvero “a secunnu u munti si etta a nivi”.
L’uomo è stato, è e sarà un animale sociale “politicamente corretto”.

 

 

IL RAPIMENTO

Oggi l’autore è triste, oggi l’autore è attonito, oggi l’autore è sbigottito, l’autore ha perso la penna per scrivere che gli è stata scippata da Satana che l’ha messa in mano ad una donna trasformandola in coltello, peggio in vanga, per usarla su un inerme creatura, devastandone il fisico e l’animo innocente.
Il malvagio regista di questo orrore ha usato la mano di una madre su una figlia, senza avere pietà alcuna per la povera donna e, ancor più, per il piccolo fiore che stava sorridendo alla vita.
La madre è lì ad abbracciare la figlia, un abbraccio mortale come quello che le Sirene avrebbero riservato ad Ulisse se questi si fosse fatto ammaliare, un abbraccio tarantolare che rimarrà vivo nelle braccia di Medea.
Ma che Medea… qui si tratta di gente comune, che non sono cantate da Omero o da qualunque altro padre della letteratura antica, che, come noi, lavora, studia, percorre la nostra stessa strada, frequenta la nostra stessa Chiesa e, perché no, si trova al nostro stesso tavolo a sorbire un caffè.
Dopo l’abbraccio il lungo percorso che porta alle mura domestiche, quelle sicure, quelle inviolabili dove tutti ci sentiamo al sicuro, anche quando cala la notte e la paura del buio in maniera latente ci pervade.
Lì certa e sicura adesso giace, adesso è colpita, adesso è finita, lì che doveva coccolarla, adesso grida tutto il suo dolore, grido che è strozzato dal finire del respiro.
Il rumore del dolore è silenzio; il silenzio ha accompagnato lo strazio del corpo, come Achille che legò Ettore al carro per far scempio del cadavere, anch’ella la avvolse in sacchi di plastica e come Achille fu fermato dall’intervento umano per mezzo del divino, anch’ella assalita dal rimorso che le mangiava l’anima si fermò.
Indicò il luogo dello scempio e scomparì.
Accorsero tutti, il padre afflitto e ammutolito per quello che aveva creduto essere ma che non era, e per quello che invece vide. Lo fermarono, ma no continuò, lo rifermarono e si sciolse in un pianto che solo il cielo riuscì a calmare.
I nonni che travolti dagli obiettivi e dai microfoni puntati iniziarono a raccontare la storia di 10 anni in dieci minuti, increduli di quello che era, consci di quello che era stato.
Gli inquirenti che come cani cacciatori furono sazi soltanto dopo aver trovato le spoglie mortali della piccola, e che continuarono a sfamare la sete di sapere comunicando a tutti la loro versione dei fatti e la rapidità della loro brillantissima operazione.
Ed ancora avvocati, magistrati, influencer, follower, tutti ma proprio tutti continuarono a teorizzare ed ipotizzare, insultando, minacciando e tranciando giudizi rigorosissimi e contemporaneamente mostrando una pietas impareggiabile.
Mentre tu sei ancora li, anzi no trasportata in un obitorio, ormai muta e priva dell’alito vitale che attendi ancora lo scempio del tuo corpo, che attendi ancora di terminare questa brevissima parentesi in mezzo ai lupi, per salire in cielo e godere della gioia eterna del paradiso, certa che nessuno sferzerà la sua mano contro di te, se non per coccolarti eternamente.
Vola piccola, sempre più in alto, l’amore universale ti abbraccerà, lasciando ai mortali un dolore eterno.
Con sincero affetto.

 

in copertina Girl with Balloon © Bansky 2004

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