Rosa Riggio (prove di resistenza)

Nel capitolo finale di Zero K di Don DeLillo, il protagonista Jeffrey Lockhar si trova su un autobus e sta percorrendo una strada di Manhattan. La sua mente è vuota, “gli occhi fissi su niente di preciso”. Ad un certo punto nota “un bagliore, un’ondata di luce”. Quell’ondata di luce lo colpisce alle spalle. È il sole che incombe tra le file dei grattacieli, incuneandosi perfettamente in straordinario equilibrio e splendore. Non è solo la luce a colpirlo, ma anche il gemito di un bambino dalla testa enorme, che osserva rapito il fenomeno. Il bambino ha le mani serrate, tremanti. Jeffrey ascolta affascinato le urla incessanti, euforiche del bambino, e pensa che quei “grugniti prelinguistici” siano “molto più pertinenti di qualsiasi parola”. Ecco, non colpisce forse così la poesia? Non ti prende alle spalle, improvvisa, mentre non pensi a niente di preciso? La poesia è visione, suono prelinguistico, così all’origine. Stupore a cui devi dare una forma. Jeffrey guarda attraverso il bambino, la cui condizione “anormale” è il veicolo, il vettore dello stupore. Egli è pago di quelle grida, di quella meraviglia. Ma il poeta, ecco, in questo c’è una differenza, è prigioniero, mai pago. Mi piace quella vaghezza, quello spazio vuoto di pensieri, gli occhi che non osservano nulla di preciso. La condizione di chi non si aspetta nulla. È e non è nelle cose, forse è nel flusso. La poesia accade nel vuoto e lo illumina, ma si tratta di una visione riflessa, obliqua. Neanche il bambino può guardare direttamente il sole, ma è nella visione, ne è parte. Così il poeta è tra deformazione ed equilibrio, nel punto esatto dove si incontrano luce ed ombra. È questo il suo esilio.

 

Rosa Riggio, Prove di resistenza, gattomerlino, 2021

 

Quello che non sai, dimenticalo.
Ciò che si accumula fiorisce, senza peso.

#prova1

Mio amore, oggi sono sei anni che non torni.
Resta dove sei.
Brindiamo insieme l’anniversario.
Due particelle, anche separate, sanno l’una dell’altra.
È fisica. Ipse dixit.
Ed io, che credevo nella separazione.
Adesso scrivo, nella stanza.
E tu cancelli queste parole.

Sai qual è la mia paura?
La mia paura è che siamo
vicinissimi, come l’alfa e l’omega
quando capovolti guardiamo in su.
La paura è la distanza che fa il tempo
quando si compie
è essere contemporanea alla morte
nascosta come una mandorla
da gustare solo una volta
un pezzetto per volta.

La gatta Pasqualina

C’è, in giardino, un cimitero di ali.
È forse colpa di Pasqualina?
Lei guarda la preda e non sa del cuore.
Vorrei fermarla.
Fare della natura un solo bene.
Andrò a raccogliere le piume pensando:
la terra saprà cosa fare, solo lei può dirmi cos’è giusto e
quanto dovrò scavare.
Nascerà un acanto o un anemone leggero, un fiore d’aria
marina, nessuna colpa è vero, Pasqualina?

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