La poesia è difficile da ingabbiare in una definizione. E questo l’ho meglio assimilato da quando ho iniziato a occuparmi della poesia di altri autori contemporanei. Ma poi è così importante avere una definizione di poesia? Anche Caproni affermava che definire cosa fosse la poesia non era nelle sue aspirazioni, pur se più d’una volta gli capitò di dover precisare in cosa consistesse la profonda differenza tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico. La poesia nelle definizioni ci sta proprio stretta, per la sua matrice anarchica, da sempre in evoluzione nelle forme e nei contenuti: dal sonetto di Jacopo da Lentini alla Beat Generation di Kerouac ne ha fatta di strada. Abbiamo l’intuito o la predisposizione a riconoscerla, ci arroghiamo il diritto e a volte la presunzione di dire dove abita e dove manca, ci ostiniamo a rincorrerla anche quando non vuole manifestarsi, ci sorprende quando non ci aspettiamo che possa esserci. Quel che mi interessa non è capire cosa sia, ma chiarire che tipo di rapporto ho con lei e ciò si traduce nella continua ricerca del giusto compromesso tra la curiosità, l’urgenza di scavare a cui la poesia mi induce e la necessità di sopravvivere a quello che potrei scoprire. La poesia non è, dunque, ma accade ed è un mistero che riesca a esprimere, a esternare taluni stati emotivi e sentimentali solo attraverso la sua intercessione. Vero, potrei adottare il racconto, la prosa, il diario per dire; invece sento l’urgenza di scrivere in versi quel senso di precarietà della vita, quella fragilità che mi sento cadere addosso. Ed ecco, la poesia accade e interviene a farmi dire quel che in altro modo non potrei mai dire. O in poesia, dunque, o niente. La poesia mi accade e non è mera rappresentazione dell’accaduto, occupando nella mia vita uno spazio e un tempo. Il tempo della cattura attraverso i recettori sensoriali di ciò che vedo, sento, ascolto, tocco – il mio corpo è il confine valicabile tra ciò che ho dentro e ciò che sta fuori; il tempo della masticazione dell’accadimento sensoriale con la saliva delle emozioni, dei sentimenti; un tempo del tutto intimo, come quello della traduzione in versi – amo molto questo termine traduzione ad intendere un linguaggio sensoriale che viene tramutato in un altro fatto di segni, attraverso l’uso consapevole delle parole e degli spazi, del detto e del non detto. Tuttavia ritengo che il processo poetico sia concluso solo quando arriva al fruitore e si ha una sorta di riconoscimento della poesia: la poesia ci mette in relazione nuovamente col mondo. Ciò mi induce ad intendere la poesia come un processo in transito, intimo e nel contempo sociale, di interazione tra due realtà tenute distinte ed unite attraverso il corpo e la parola; un viaggio sempre diverso, oserei dire, che consente di spostarmi verso un altrove, uno spazio dove mi raggiungo: è solo altrove che ho l’opportunità di collocarmi in altri luoghi reali ed immaginati e comprendermi in una modalità che mi è sconosciuta. Un viaggio alla ricerca di ciò che si nasconde, che richiede e mi conduce alla necessità di acuire i sensi, di staccarmi dal gesto ripetitivo e quotidiano per acquisirne consapevolezza ogni volta che lo compio. Ed è ciò che accade nella mia ultima pubblicazione, la plaquette “Le case con gli occhi verdi”, Babbomorto editore, che accoglie sedici testi suddivisi in tre sezioni: insonnia, addomesticare la bestia e trittico. L’introduzione è affidata ai versi della poesia Sphère di J. Risset, “la sospensione è bella/ quel che fa paura è bello”. Un’affermazione che ci lascia a primo acchito basiti. Come può essere che sia vero? Come possiamo sentirci attratti da qualcosa che ci tiene sospesi e che per questo ci fa paura? Ma proprio questo è il punto di partenza del mio percorso emotivo all’interno di “Le case con gli occhi verdi”: un pas à deux tra paura e desiderio, il compromesso tra la voglia di tuffarsi nella vita e la paura di farsi male. Dalla paura mal gestita di morte imminente – che ha condotto a insonnia, allo scavare gli occhi, alla rabbia che “da dentro/ mi mangia la guancia” – al timido tentativo di affrontarla con una nuova consapevolezza – il “non avere paura di prenderle/ può essere un buon inizio”, il non aspettare inerme il verificarsi dell’evento i cui effetti potrebbero non essere quelli che temiamo – che germina tra la prima e la seconda sezione. È manifesta una sorta di ribellione alle cose dette e fatte per seguire un principio, una necessaria trasgressione nei contenuti e nella forma, un’aggressività necessaria ché “è sul ring che mi vuole/ non preda ma arpia/ diseducata all’amore mal educata dall’amore”, che induce all’attacco “con le zanne feroci/ e le catene spezzate”. Il percorso si conclude con Trittico in un messaggio di tenerezza che dovrebbe appartenere a coloro che si voltano le spalle dopo aver raggiunto in amore l’apice del giorno.
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da “Le case con gli occhi verdi”, Babbomorto editore
ii
non avere paura di prenderle
può essere un buon inizio
e invece
non andare nel bosco
non andare nel bosco
non andare nel bosco
mi hanno insegnato ad avere paura
del buio e del bosco
di ciò che non conosco
la fiaba si ferma all’apparenza e ci spaventa
non ascolta mai la versione del lupo
vii
Recidermi
recuperare il fiore
Respiro bocca a bocca
con le ombre
Sottoespongo – inspiro
compenso – espiro
Mi salvo dalla mania
di conservazione del pensiero
x
entrambi guardiamo
le case con gli occhi verdi
con quelli mi dilata le labbra
le apre fino al molo
laggiù
poi l’eco s’inabissa
e sanguino di gioia
mi bacia il dito
bagnato di rosso
Inediti
—
sospendersi
senza avverbi di tempo
le braccia fluttuanti
i nodi vertebrali cedono
ad un complimento di compagnia
sono giovane con te
ammorbidirsi a burro sciolto
e nessun rumore
cadere informe al suolo
in gocce di sapone alla fragola
poi macchia rosa
a pensarci è bello
—
le parole non dette
restano in bilico sulle intenzioni
per ansie ed ansie
muoiono sole nelle anse
del monologo tra testa e cuore
un peccato non dire
non aprire le dighe
per sversare parole
colme d’amore?
che peccato sarà poi dire
“ho aperto l’invaso
nel momento sbagliato”