Scrivere per dare al lettore un’esperienza che altrove non c’è

rubrica, parola d’autore

Ho iniziato a scrivere seriamente dopo i vent’anni, d’altronde ho iniziato a leggere seriamente soltanto dopo i sedici. Ho avuto un apprendistato letterario faticoso, casuale, ma deciso. Questa mancanza di metodo e di prassi me la porto ancora dietro, credo, perché le mie lacune letterarie si trascinano, colmate da incursioni in altri spazi poco battuti. Mi sono creato una bibliografia essenziale, poco ortodossa, di cui vado però fiero.
Ho sempre accompagnato la mia vita da scrittore con quella del vendere i libri degli altri, sia come libraio prima che come addetto ai lavori attualmente (lavoro per Feltrinelli Editore). Lo ritengo un buon modo per non montarsi la testa e mantenere un rapporto sano con quello che viene pubblicato, compresi i miei, di libri.
Non ho una vera definizione di scrittura, i punti di partenza (e di arrivo) sono tanti. Il mio è parsimonioso. Non insisto, non ammicco, non credo nella letteratura degli effetti speciali. Mi piace più far vedere che spiegare. Infatti sin dall’esordio hanno definito la mia scrittura “cinematografica”, forse volendo anche un po’ sminuirne la cosiddetta letterarietà. Ma io ho sempre preso quella definizione come un complimento, e tuttora me la tengo. Se il mio lettore non si annoia, ho già vinto.
Fare lo scrittore oggi è un non senso, meglio volerlo essere, senza pensare con questo di possedere diritti maggiori rispetto a un cassiere della coop. Bisogna sempre ricordarsi che lo sforzo di chi si avvicina alle proprie opere è tanto, deve aver fatto una scelta tra tanti libri e soprattutto con tante altre forme di intrattenimento. Perché poi è quello che facciamo: intrattenimento. Più o meno colto. Parlo di narrativa, ovviamente. Quello sforzo di cui sopra bisogna ripagarlo con del sudore, dell’artigianato convinto, del mestiere, della devozione. Odio andare in ristoranti in cui i primi senza voglia sono i gestori. Allo stesso modo, anche se può sembrare poco artistico e molto blasfemo, bisogna che al lettore noi scrittori diamo qualcosa di puro, bello, lavorato, forse anche essenziale. Un’esperienza che altrove non c’è. A me i libri hanno cambiato la vita, tuttora me la determinano, e me lo ricordo ogni volta che scrivo una pagina, che faccio un’intervista, che vado in giro a parlare dei miei libri.
Venendo all’attualità, il mio ultimo romanzo, “Ogni spazio felice”, è quello di cui ho meno voglia di parlare. Lo so, è la cosa meno sexy che si possa dire rispetto al proprio lavoro. Ma è un romanzo così intimo e spudorato che ho voglia parli da solo. Bisogna leggerlo, e raccoglierne quello che si vuole. Dentro vi ho messo tutti i miei primi trentacinque anni di vita. Lo considero un punto. Di arrivo, di partenza. Ancora non lo so. Di certo mi rappresenta molto, più di tutte le cose altre scritte finora. Voglio più o meno bene a tutte le frasi che ho scritto, ma quelle messe dentro quest’ultimo sono state soppesate una per una. Non ne manca nessuna, nessuna è di troppo. Non è bello dirlo ma è il mio figlio preferito.

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