Sebastiano Aglieco: “Non si può produrre poesia a cuor leggero”

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Sebastiano Aglieco poeta e critico, è nato a Sortino (SR), il 29 gennaio 1961. Vive a Monza e insegna a Milano. Ha pubblicato diversi libri di poesia. Tra i più recenti, ricordiamo: Giornata (La Vita Felice 2003), premio Montale Europa 2004; Dolore della casa (Il Ponte del Sale 2006), Nella storia (Aìsara 2009), Compitu re vivi (Il ponte del sale 2013). Ed è proprio con una poesia emblematica scelta da quest’ultimo straordinario libro in cui, come scrive nella nota introduttiva Maurizio Casagrande, “aleggia un’aura tragica e sacrale”, che vi introduciamo alla lettura della nostra intervista: Ho deciso: / aprimi, se vuoi, come / una melagrana, e guardami / tutto è nel petto, qui / che trema della sua gioia / della sua veloce spina.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla sua prima poesia?

Più che una prima poesia, faccio riferimento a un intero quaderno, il primo scritto da bambino/adolescente. Era un piccolo quaderno rilegato con una carta lucida, rossa, l’avanzo di un regalo di Natale. Lessi una di queste mie poesie all’insegnante di italiano – frequentavo la prima o la seconda media, non ricordo – . Lei fu molto dura. Mi disse che non si capiva niente delle mie parole e che avrei dovuto leggere “Gabbiani” di Caldarelli per imparare a scrivere buona poesia. Per la rabbia strappai il quaderno. Di tutti quelli conservati, mi manca solo questo. Il fatto che “non si capisse niente” era vero e indicava uno stile già precocemente delineato. Non era, però, questione di ermetismo. Credo che si trattasse di grumi, di prime intuizioni da sciogliere col tempo e con una maggiore consapevolezza. Come poi, spero, è avvenuto.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la sua formazione?

Sono cambiati col tempo. I primi poeti di riferimento sono stati sicuramente Garcia Lorca e Pablo Neruda. Forse semplicemente perché in casa esistevano i loro libri, arrivati non so come. Leggevo anche parecchi classici, per esempio Ugo Foscolo, ma mi affascinavano molto le tragedie di Alfieri. I miei interessi andavano anche verso il teatro e la narrativa. Capitali per la mia formazione adolescenziale, ma non so dire perché, furono “Palla di sego”, di Maupassant, e una biografia romanzata di Nerone.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Nel corso del tempo ne sono rimasti pochissimi, importanti non solo per la riuscita stilistica, ma per un forte impatto etico. Per esempio un distico di Piero Jahier, “Che la minima buona azione/vale la più bella peosia”, versi che ormai hanno assunto il significato di un vero mantra. Certo, ogni poeta ha scritto versi memorabili che si possono leggere anche in libri ritenuti inferiori, se non addirittura non riusciti. Versi che magari non riescono a tracciare le linee complesse di un’intera poetica ma che sanno descrivere un particolare, proclamare un’intuizione.

Qual è – nell’arco della sua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Non scrivo mai in casa, davanti alla scrivania. I miei luoghi sono i bar, durante la colazione della mattina; la linea del metro, il parco, i giardini. Mi piace scrivere osservando la gente, con un sottofondo di brusio che mi trattiene alle cose. Prima di entrare a scuola, vago per la città e osservo, ascoltando la mia musica.

Qual è la sua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Domanda difficile per un poeta. Si dice che la poesia vada prima scritta e poi pensata perché ogni testo, in fondo, contraddice il suo stesso pensiero. La poesia è sfuggente, pericolosamente in bilico tra intuizione e ragione. Non la amo quando prevale l’uno o l’altro aspetto. Diciamo che mi interessa molto l’origine di questa lingua, da dove viene, come si evolve. Da insegnante di scuola elementare vivo tutti i giorni il privilegio di trovarmi immerso in un laboratorio di scrittura che è un po’ come abitare le origini del mondo. Mi interessa molto la lingua immediata e brutale dei bambini, il passaggio che riescono a fare, se ben guidati, verso la forma della poesia. Ecco: non credo di aver risposto alla domanda. Diciamo che ultimamente sto resettando ogni questione di poetica per ritornare a uno spazio bianco di cui, ne sono convinto, i poeti hanno bisogno. È un tema e un nuovo modo di far critica che avrà questa casa: (https://daunospaziobiancoblog.wordpress.com/).

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Quando riesce a raggiungere un equilibrio tra sentimento e ragione. Ma per sue motivazioni interne, non dovute a nessuno. Ogni poesia, però, dovrebbe anche saper suggerire una fragilità, una precarietà. Né scostante, né altezzosa. Il lettore farà il resto.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

Ho fatto riferimento, prima, a uno spazio bianco. Si potrebbe parlare di purezza, senza l’illusione di una totale innocenza, di un’abiura di tutte le stratificazioni culturali ed estetiche che ci abitano. Credo che sia necessario, a questo punto, uno sforzo verso un sentire più innocente, un mostrarsi della parola allo stesso modo in cui si mostra un bambino all’adulto, frontale e disarmante.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Ritrarsi un poco. Rinunciare a stare nelle prime linee. Camminare dietro, non davanti. Smetterla col baccano. Con l’esserci a tutti i costi. Con la piccola gratificazione di una presentazione, di una recensione, del plauso di un personaggio noto. Magari corteggiato a lungo. Le sorti del mondo non dipendono sicuramente dalla scrittura di un buon libro. La poesia non salva e non ci salva. Mi sembra che ultimamente i poeti non stiano lavorando per l’”essere” ma per l’”esserci”. Si fa sempre più fatica a distinguere il senso delle parole in poesia, che è poi il senso del nostro abitare il mondo. Meno poesia, direi. La poesia deve intimorire, dobbiamo essere spaventati quando scriviamo. In pericolo. Scrivere è una responsabilità. Non si può produrre poesia a cuor leggero.

Riporterebbe una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ama rifugiarsi?

Non citerei una poesia ma un brano di Kafka, di Camus, di Saint Exupery, di Piero Jhaier, che sono i miei autori di riferimento … Forse, più di altri, la “Lettera all’esule”: ho tanto bisogno della tua amicizia, amico mio …

Per concludere, la invito a scegliere (riportandola dal suo libro più recente) una sua poesia per salutare i nostri lettori.

Questo testo è tratto da “Compitu re vivi”, pubblicato dal Il ponte del sale, con una prefazione di Maurizio Casagrande; un libro svolta nella mia storia di “poeta” perché scritto in dialetto, lingua che purifica l’italiano dei suoi orpelli, dei suoi estetismi… lingua che non ha parole per esprimere concetti ma le immagini concretissime delle cose.

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A matri fujùta nno scuru

Si scuppulàu u tettu
nu ventu arraggiàtu u fici vulàri
scuppàu, fici tùmmula nno curtìgghiu
i sciàncu, niscènu fora i fìmmini jttànnu uci
’n cutèddu ci tagghiàu i testi
c’èrunu rasti rutti e sporti
ri latti, a matri ruppi i potti
niscju ’n ciumi
vippi tutti i vucchi r’addèi
e a màchina s’asdurrubbàu
’mmenzu e buffi.

*

La madre fuggita nel buio

Si scoperchiò il tetto / un vento feroce se lo portò via / cadde sbattendo, nel cortile / vicino, uscirono le donne urlando / un coltello ci tagliò le teste / vasi rotti e borse / di latte, la madre ruppe le porte / un fiume straripò / bevve tutte le bocche dei neonati / e l’auto precipitò / in mezzo ai rospi.

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