Auguste Renoir

Auguste Renoir

“Ogni autore dovrebbe essere interprete della realtà da rifabbricare in forma nuova”

Proliferazione dei verseggiatori e solipsismo, povertà e uniformità del linguaggio poetico, epigonismo: sono questi solo alcuni dei termini più adeguati a definire la difficile situazione della poesia italiana contemporanea, che mostra per intero lo stato della sua crisi. Si tratta di uno dei modi con cui si risponde alla povertà delle idee, alla decadenza di varie istituzioni culturali e ai mutamenti, alle incertezze e talora alla dequalificazione dell’industria editoriale: aspetti che, nel nostro paese, sono ulteriormente aggravati dalle conseguenze di una logica di potere e corruzione clientelare divenuta negli ultimi anni quasi generale sistema di vita. Purtroppo, si tratta di una risposta debole. Abituati come siamo all’ipoteca naturalista, all’accettazione incondizionata e idolatra del dato reale, ma anche all’idea d’ascendenza marxiana, e non solo, che la cultura sia un fatto soltanto sovrastrutturale, tendiamo spesso alla formulazione di un pensiero visto come semplice prodotto e, anzi, fotocopia della realtà, che non può che consegnarci, nei suoi estremi, o a sentimenti d’impotenza, nichilismo incluso, o a sterili rifiuti e a smanie estetizzanti. […] Ogni autore e anche ogni critico, sia pure in maniera diversa, dovrebbe essere un interprete della tradizione o delle tradizioni e della realtà che dovrebbe rifabbricare in forma nuova. Nutrire il senso delle tradizioni/della tradizione è l’unico modo che un autore ha per coltivare la consapevolezza formale del contingente in cui si colloca il proprio lavoro, ma anche delle multiformi prospettive storiche e letterarie entro cui l’opera instaurerà una larga rete di riferimenti nuovi, diventando un polo dinamico in grado di originare e diffondere altre energie creative. […] Potremo fare poesia in modo davvero riconoscibile, se saremo in grado di riscoprirne e renderne operativa, accanto all’energia primaria, irrazionale, dell’intuizione, quella dimensione razionale che il riesame etimologico ci ha consentito di recuperare. D’altronde, il linguaggio razionale è proprio la più straordinaria acquisizione dell’uomo, perché i due elementi – razionalità e irrazionalità – vi sono compresenti in modo inscindibile. […] Razionalità della poesia è dunque la capacità di un autore di riflettere sui topoi a cui le tradizioni fanno più frequente riferimento, per es. su alcune maniere di descrivere e trattare oggetti ed elementi della natura, e di rinnovarli ricontestualizzandoli o rovesciandoli. […] Per agire in maniera positiva, costruttiva, in letteratura, sono necessari spirito, coraggio ed energia pensante: una “filosofia”. Non già nel senso di assumere come proprio un bagaglio di pensiero organico ereditato dai filosofi di mestiere – siano Croce, Gentile, Marx, Heidegger o chi per loro –, e di tradurlo tout court, nei suoi contenuti, in poesia seppure con gli adattamenti del caso. Piuttosto, si dovrebbe trattare di una filosofia nel senso già inteso da Leopardi, vale a dire di un percorso originale all’interno del pensiero altrui e proprio, per la creazione di una personale visione delle cose e della poesia stessa: di una nuova poesia. Una filosofia, quindi, che costituisce e organizza quel sapere, quella individuale verità che è la sostanza e uno dei poli dialettici della poesia medesima; e che per questo non diventa né ancella di altre formulazioni teoriche sistematiche né della poesia stessa, concepita magari quale uno sgorgo spontaneo di sentimenti potenti, come scrisse William Wordsworth. Estratti dal volume “Il sogno della Letteratura. Luoghi, maestri, tradizioni” (Gaffi).

(l’EstroVerso Dicembre 2012)

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