[Tratesto]
Al di là dell’esito che conosciamo, l’impresa di Cristoforo Colombo è di quelle che tendono a scoraggiare gli animi meno audaci, tanto essa si pone al limite delle capacità umane. Tommaso Di Dio, che attraversa le parole con indole di logonauta, ne riporta le ambizioni nell’epigrafe che apre il suo ultimo libro, Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020): «Oltre a scrivere ogni notte ciò che succederà di giorno e di giorno quanto si navigherà di notte, ho in proposito di fare una nuova carta di navigazione […] e di comporre un libro e mettere tutto, conforme al vero». Più che nella scoperta (fortuita), il senso del viaggio di Colombo andrà quindi rintracciato in questa vocazione all’opera-mondo, ovvero a un prodotto dell’ingegno umano in cui si sente pulsare un respiro cosmico, una tensione a inglobare tutto ciò che eccede i limiti di tale ingegno. Impresa titanica ma, a ben vedere, in linea con l’archetipo di ogni viaggio che ha la sua origine in quel comune desiderio di “virtute e canoscenza”.
Il percorso che ci prospetta Di Dio in Verso le stelle glaciali inizia infatti dove la figura di Colombo sfocia in quella di Ulisse, che a sua volta dissolve in un Everyman che incarna tutti i pronomi, «io tu egli / noi voi essi, persone» (p. 99): un soggetto plurale perduto tra gli «strati» di una esperienza che ci riguarda tutti in termini di specie. Tale tensione unitaria è infatti la sostanza che presiede all’organizzazione interna del libro; e qui diciamo ‘libro’ per indicare un organismo letterario coeso, ma non autotelico, segnato da un continuo movimento intratestuale. La struttura di Verso le stelle glaciali, composta di quattro itinerari in altrettanti giorni-notti variamente dislocati (o forse no?) in quanto a spazio e tempo, a cui si aggiunge un corredo visuale di mappe con relative descrizioni in appendice, ha infatti l’ambizione di realizzare, per via multimediale, quell’opera-mondo di cui si diceva all’inizio.
L’idea principale è quella di una percorribilità del testo che, rafforzando il motivo conduttore del viaggio, si configura in una esplicita apertura verso il lettore-viaggiatore chiamato ad attraversare ermeneuticamente l’opera in questione, vale a dire aggiungendo il proprio percorso di senso (tra gli infiniti possibili) ai quattro proposti dall’autore: un itinerario metropolitano nel XXI secolo; un viaggio ai confini della percezione cognitiva fino allo «sbriciolato buio» della mente e alla disarticolazione del linguaggio; la navigazione per l’alto mare aperto di Colombo; l’esperienza in transito di un soggetto che dice “Io”. A tenere insieme tutti questi luoghi, tempi e direzioni, che conducono infine a una medesima destinazione, è la mente umana.
Verso le stelle glaciali è infatti un viaggio mentale – cioè della mente e nella mente – ma non in un’accezione banalmente fantascientifica. Qui la mente, intesa come connettore universale dell’esperienza umana, è il fondamento che rende accessibile la condivisione antropologica di tale esperienza: «Mente mia; lucida, chiara / inesistente […] / cerca, se qualcuno ha la chiave / chiamalo e portalo qui. Perché anch’io infine veda / e senta / interamente questa che sento e vedo / canzone della terra» (18). La capacità cognitiva, la (auto)coscienza di specie dell’essere umano è la chiave; mediante essa un soggetto si concepisce in quanto tale, ovvero in relazione a quel mistero per cui egli si presenta come un’entità insignificante e grandiosa allo stesso tempo. Non ci sembra di andare incontro a un’interpretazione errata se ci spingiamo ad affermare che ciò traduce, sulla base delle moderne neuroscienze, il leitmotiv pascaliano della miseria e grandezza dell’uomo che, in questa circostanza, passa anche dalla lezione che Yahveh impartisce a Giobbe: «Mentre nasce / dove siamo. Dove eravamo mentre / nasceva. Cosa abbiamo fatto / mentre sorgeva / un’irruzione, uno sgorgare; […] / mentre ancora una volta tremano stupide / e implacabili / le fondamenta della vita» (21).
La mente pertanto determina il soggetto come un Io strutturato collettivamente. Esso, «dalle fondamenta della vita», ha percorso strati di esistenza quantificabili in eoni, ere geologiche, epoche storiche, spazi terrestri per poter affermare la propria esistenza in un segno. Questo Io, secondo un’affascinante ipotesi paleografica, sarebbe già rinvenibile nell’artista plurale che ha ‘istoriato’, con «centinaia di mani», le pareti della grotta di Lascaux, continuando in questo modo, come ci dice la descrizione della quarta Mappa, il «medesimo discorso che aveva trovato lì, cominciato dal suo predecessore in chissà quale epoca remota» (130). In virtù di tale connessione storica, ovvero stricto sensu generazionale, è allora pienamente pensabile che un evento verificatosi nel terzo millennio dopo Cristo, svegliandoci nel cuore della notte, «ci riporta tutti / in una preistoria senza spazio / […] / dove un mondo vive nella mente / e nessuno sa perché» (37).
Un mondo, questo, che è il cuore del secondo itinerario, L’occhio azzurro. L’ospedale, la caverna, che è, per inciso, il più claustrofobico del libro. Allo spazio chiuso dell’ospedale corrisponde infatti l’«ignoto buio / senza tregua» (39) di un uomo identificato nel suo essere «corpo sperduto» (45) tra il letto del degente e le «pareti di pietra» di una grotta dove è stato dipinto, in era paleolitica, «con milioni di mani» (49). Come sia possibile questa ubiquità spaziotemporale è un mistero che non si riesce a penetrare con gli “strumenti umani” di cui pure disponiamo: «Non comprendiamo / quale vita abbia avuto forza, quale forza / abbia avuto vita, fra questi strati» (42). L’idea biologica dell’esistenza come energia inesauribile che continua strato dopo strato ci proietta allora in una soglia ancora non del tutto esplorata dove coscienza e linguaggio danno vita al logos di un «poema» le cui «parole possibili» (38), nello «sbriciolato buio» (42) della mente-caverna di quest’uomo, diventano «impossibili» (54).
Con tutta evidenza, l’Esserci di cui parlava Heidegger non si riduce alla mera presenza ma presuppone invece un livello di comprensione ulteriore; una forma di vita che deve inoltrarsi «negli strati, nella grotta, nei boschi / dei boschi» (45). La questione riguarda dunque la ‘traduzione’ di una singola vita in «quintali / di incarnati linguaggi, e di braccia / uniti alle braccia e di gambe unite poi / ai polmoni e polsi altrui; attaccati tutti / alle forze che non durano» (44). L’attrazione tra i corpi, diciamo pure la vocazione umana all’alterità, permane fino a quando le facoltà cognitive in nostro possesso ci permettono di esprimere le esperienze fondamentali dell’esistenza; fino a quando siamo capaci di pensare la nostra specie come artista e opera rupestre. Ogni traccia umana, sembra volerci ricordare Di Dio, è al fondo una «fievole istoria», per dirla con il Mario Benedetti di Umana gloria al quale questa sezione deve sicuramente il tema della possibilità del discorso verbale («Povera umana gloria / quali parole abbiamo ancora per noi?», in Tutte le poesie, Garzanti 2017, p. 128) nonché l’immagine focale della raffigurazione preistorica in dialogo con l’umanità presente: «Le iscrizioni neolitiche / sono state sulla mia mano. / Mi hanno visto / gli uomini di una volta e piangevo / perché non era impossibile. / Apparivo continuamente / nell’andare delle linee, / tra gli occhi e il non vedere più» (Ivi, p. 99).
Il «tra» di questa visione è il territorio in cui si spinge il terzo movimento di Verso le stelle glaciali. A questa altezza del libro non sono più gli occhi a registrare le tappe del viaggio, bensì la «bugia della mente» (57) nella quale esso ha luogo. I testi de Il mare, la mente (così il titolo della sezione) si pongono pertanto all’insegna di una apertura oceanica del reale: l’orizzonte della navigazione coincide sempre con la frontiera tra il visivamente esperibile e «una terra» che invece si dà come costruzione del desiderio di un soggetto che «vuole vedere / non capendo» e «credere / non sapendo» (74). Tale soggetto non può che riconoscersi, in ultimo, nei termini di una tensione infinita; nella sproporzione tra i propri limiti («penso / alla terra mia nuova, terra / che sempre sarà / più in là di me / senza me», 71) e l’attitudine sovrumana ad andare «oltre la sfera della nostra mente / […] / fra gli innumerevoli strati / quando io tu egli, uno qualsiasi di noi giunse là / dove desiderio e cosa» convergono (70).
È, questo, un movimento che conduce a un «fuori, al di là della mappa, in un luogo più grande» (137). Per ragioni storiche, Cristoforo Colombo è l’agente per cui esso si avvera; il protagonista “ideale” che consente a Di Dio di mettere in atto una “vera finzione” sulla scorta della grande lezione dantesca. A questo proposito, è difficile non scorgere, e in vero già dalla volontà di concepire unitariamente il libro come un viaggio, un’operazione ermeneutica che introietta il modello esemplare della Commedia nel tessuto di Verso le stelle glaciali. Potrebbero fungere da esempio i seguenti versi: «1492: Granada è presa. La regina / ha detto che si parte: mi darà tre navi, cento uomini e Dio / non risparmierà la sua grazia perché parto / per dare oro e gloria / all’immensità di Lui» (64). La similitudine numerologica dell’impresa (tre, cento), l’auspicio della regina (Beatrice o la Vergine del XXXIII del Paradiso), l’identità del fine divino sono, evidentemente, spie che accordano all’interpretazione del viaggio sub specie Dantis un valore antropologico universale. Se aveva ragione Pavese nell’affermare che l’intento di ogni scrittore è quello di ricostruire, al livello della propria opera e della propria esperienza, una Divina Commedia in miniatura, Verso le stelle glaciali parrebbe confermare senza dubbio questa intuizione.
Per tali ragioni, il diario di bordo di Colombo ci porta dunque dentro il cuore dell’impresa di Dante-Tommaso. Impresa che procede in maniera accidentata, ovvero con l’adrenalina di momenti euforici a cui si alternano improvvisi sconforti che ne mettono in dubbio la riuscita: «E se questo mare non finisse. Se ci fosse altro mare / oltre il mare. […] / E se non vi fosse terra. / […] / E se io già / sono da sempre / nel mare / come chi s’è perduto» (88). Un naufragio come quello dell’Ulisse di Inferno XXVI è sempre dietro l’angolo, al punto che il Colombo di Tommaso Di Dio è chiamato, in almeno due occasioni cruciali, a ravvivare il desiderio dei compagni (e per primo il suo) con una prova di leadership che recupera argomenti e vivacità linguistica da «orazion picciola»: «Dove si va / amici, le parole finiscono» (72), pertanto «io vi imploro io vi sforzo» davanti a «ciò sorge / invisibile all’orizzonte» (83). E sembra quasi di vederlo, Colombo, con gli occhi della nostra mente collettiva, impegnato nell’agone delle parole; quelle rivolte ai compagni e quelle depositate sulle pagine del diario in una scrittura sorella del ‘poema impossibile’ della sezione precedente. E da qui, finalmente, prendere coscienza che è la meta a definire il senso del viaggio: «soffio della mente e visione / improvviso sboccio, materia» (80). La luce delle stelle, prefigurata dal «lume» di «una piccola candela (87), non è più strumento, ausilio della navigazione, ma essa stessa diventa direzione, destino.
Alla luce di questa scoperta, la terra smette di essere un miraggio e può così palesarsi alla ciurma e a Colombo che annota che l’unica conquista è quella «della mente che di sé / sempre asseta»: «E adesso che sono arrivato. / Adesso che sono qui, con il piede / sopra questa terra. Adesso posso dire che / nulla ancora è stato fatto. // Solo la candela / era luce vera» (95). Il che equivale a riconoscere che la signoria della mente, in quanto capacità di trasposizione di un vissuto universale, come fattore che ha determinato il successo dell’impresa di Colombo. Per questa ragione ci piace credere che forse anche l’Ulisse dantesco, qualora avesse potuto portare a compimento il suo «folle volo», sarebbe pervenuto a una medesima conclusione. In Verso le stelle glaciali essa si manifesta quindi in uno snodo ben preciso: nella penultima poesia della sezione, l’ultima prima della “terza notte”.
Per costante gravità
e attrazione; inoltrata in spazi
e tempi, una
corrente, vorticante, anomala nube di gas, per migliaia
di anni luce lega
stella a stella, corpo irradiante ad altro
corpo cieco. Forze mareali, aloni; emorragie
di fotoni a fiotti dalle insenature
resero impossibile continuare a dire. Ma chi parla qui
non conosce nulla. Breve
si alzò nell’aria
il suo nitrito. (p. 89)
Qui si trovano a convergere non solo tutti i movimenti del libro di Di Dio, ma anche tutti gli itinerari percorsi e percorribili dalla specie umana nel tempo e nello spazio. Il punto estremo, diciamo pure l’approdo conclusivo del viaggio, coincide con l’impossibilità delle facoltà verbali. È quindi il silenzio glaciale delle stelle il punto di arrivo che ci permette di misurare la distanza tra «chi parla», cioè chi dice “Io”, e l’infinita forza di un polo magnetico che attrae e respinge: «Io. // Verso le stelle glaciali. // Oppure puoi dire / un sentiero già segnato, un ritorno, una riflessione» (111).
A dare rilievo semantico alla poesia che abbiamo riportato sopra è però già la didascalia d’apertura: «Intanto, nelle Nubi di Magellano». Ora, se leggiamo quell’intanto come un avverbio di tempo e di spazio, ci apparirà in tutta la sua chiarezza quel movimento che porta a un Altrove; al «Fuori» a cui ogni mappa deve aspirare e che pertanto conferisce una misura cosmica agli avvenimenti terrestri. La mente di Colombo partecipa dell’infinito mistero del cosmo perché il suo luogo – il luogo della mente – è il margine, il bordo; vale a dire la capacità di situarsi, nello spazio e nel tempo, tra il soggetto esperiente e un fuori da Sé. Ecco allora che la nebulosa NGC 346 all’interno della Nube di Magellano insegna al Colombo-personaggio (e al lettore) un modo di interpretare le mappe che si traduce in un «gesto di rifiuto e di accoglienza»; un gesto che risponde a un istinto congenito: «all’improvviso, alziamo la testa» (143).
In una rinnovata aderenza al mondo che ci circonda e che sempre cerchiamo di abbracciare con la mente, l’uomo paleografico, con millenni e millenni di storia sulle spalle, denunciando l’insufficienza dell’identità cartesiana del soggetto umano con una res cogitans, riesce a scorgere una verità più accessibile in «un cuore / che pompa la musica opaca degli organi». Attraverso questa fessurazione della mente, che distoglie lo sguardo da sé per rivolgerlo al muscolo che governa l’attività biologica dell’individuo, questo nuovo soggetto, forgiato alla luce delle stelle, arriva a concepire quella dimensione ulteriore che tiene insieme tutti gli strati: «Ho tempo. Guardo / questa pianura vivere; e non desidero niente / che non sia / questa pianura vivere» (109).
A questo punto, l’ultima tappa del macro-percorso di Tommaso Di Dio prevede la sparizione dell’io-autore ad opera del tu-lettore, al quale passa il testimone e il compito di continuare il viaggio. In questo luogo di incontro, in questa soglia ermeneutica in cui la logica dei pronomi è messa continuamente in dubbio e l’autore diviene Dante che si sdoppia in Ulisse che si tramuta in Colombo, ci viene dunque consegnata la missione di una vita che è, anche, la nostra: «Le nostre parole / stanno per raggiungerci. Siate pronti. / Dite loro il vero» (121). Il viaggio è appena iniziato.