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LA NOTTE ERA UN LUNGHISSIMO MARE

Accadeva dopo cena
appena dopo le ventuno
al rintocco dell’ultimo sprazzo.

Ci si chiamava per nomi stentorei
Fidia, Asclepiade.
Il tatto arroventato sui fianchi
le labbra perfette all’umido corallo.
Seguivamo vestiboli
che aprivano a bifore più aggraziate.
Soffocati in un nembo i sospiri
sceglievamo Kavafis da leggere al buio.
La notte era un lunghissimo mare.

 

SPINE AL VENTO

Quello che c’era da vedere
l’ho visto.
Lascio fumi, muri e silenzi.
Lascio spine al vento.
Appendo l’ultimo quadro
e sfuggo il tempo.

 

NUOVAMENTE M’ABBANDONO

Nuovamente m’abbandono
m’ingabbio.
Lustro mi ritrovo
nell’assenza
di una rinomata conoscenza.
Ed è afrore
nell’agata della mente
quasi fragore.
Se non è fermento
quello che ora scorgo
sarà cerchio in fragranza di demenza.
Impiccatemi pure
gustando ciò che mi manca
Ma non prima d’avermi soffocato
in abbaglio
in abbondanza.

(Intestatario di assenze, 2008, Campanotto)

 

PAURA DI DIO

Potrei morire e rifiorire
svuotarmi di lime perfette
di corpi, di resti distorti.
Morire attaccato ad un fiume
con le braccia più nere del vento.
Rinascere poi su un pezzo di gelso
in un mare o su un colosso più duro.
Ma è proprio ciò che mi spaventa
questo colosso che non conosco
questo corpo supremo fatto di firmamento
di fazzoletti d’orto
senza tempo.

 

SAPESSI CHE PESO

Sapessi che peso
sentirti come peso leggero
sentirti dentro
come abile prugna
inzuppata più volte
sulle urne del corpo.
Sapessi che peso
il fragile sorriso
l’assenza di parole
quegli occhi scoscesi sui vetri.
Sapessi che male
saperti sognare
scrosciante.

 

DEVO TORNARE A RICOMPORMI

Devo tornare a ricompormi
in una cesta di silenzio
o in qualche scorza prodigiosa.
Anni vissuti senza tregua
voltando gli òmeri al mattino
in un fluire interminabile
di soli senza soli
di forze impavide e sghembe.
Avrei già gioito
se avessi bussato alle cortecce
sarei forse già propaggine.
Ma ora che son qui
acceso in ombra fra gli ulivi
con l’eco dentro il mondo
canto versi ai pettirossi.

(Sopra la terra nera, 2010, Campanotto)

 

NATURA MORTA

Se da me a te
l’anima è obliqua
se in qualche spazio
tu ti muovi
giulivo
rifugiandoti in contesti
sovrumani.
Se custodisci il tempo
l’assetto d’ogni cosa
consacra
queste pere piene d’ansia
questa mela putrefatta
questo scarto di lattuga.

 

DALLE PERLE CHE CADONO DAL CIELO

Dalle perle che cadono dal cielo
pongo d’istinto le atmosfere.
Non ho voglia di capire
se un raggio o corona
è riverbero arguto.
Ciò che mi preme
è in un campo sperduto.
Punto dritto al maldestro
all’inetto, al resto.

 

IL MURO

Sono fortunato.
Non avrei più pensato
di ascoltare la vita
in un tramezzo di stanza.
Un gatto mi guarda.
Non è un sogno
quell’acquaio che stilla.
M’incanta la goccia
che ammolla la ghiaia.
Tu gatto ora
ripara la falla.
L’agenda del muro è
più vera dell’aria.

(Tra cielo e volto, 2012, Edizioni del Leone, prefazione di Paolo Ruffilli)

 

APRO IL MIO PETTO

Apro il mio petto
come una piaga.
Girano grilli, girini
e allegri di Mozart.

 

MI GIRO. DIETRO DI ME

Mi giro. Dietro di me
una vasca per pesci
una panca.
Sposto con grazia
l’esile foglia
che sa di carpello.
Da un campetto adiacente
una figura s’accosta
mi tende la mano
si stende.
Abbozza l’amplesso
con un rametto.

 

LA NOCE

Qui si sente calore.
Il buio non ha voce.
La noce voltola
giunge ai piedi
di un tavolo giallo
al cui centro s’incrociano alluci.
Qui si sente odore
di monili sottili
lo spazio di un ardore.
La noce rivoltola
svolta a destra
si consuma
fissa arguta la stanza.
Muore al centro di un armadio
al cui lato s’infiamma la danza.

(Dentro, 2013, Associazione culturale LucaniArt)

 

 

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