“La parola della poesia custodisce, in sé, un paradosso estremo”. Mario Fresa e la sua “Bestia divina”.

tre domande, tre poesie

 

 

Mario Fresa è nato a Salerno giovedì 10 luglio 1973. Si è laureato e specializzato in Letteratura italiana. Dal 2002 insegna, traduce dal latino e dal francese, cura collane editoriali e collabora a riviste e quotidiani. È autore di vari libri di poesia: Liaison (2002); Alluminio (2008); Uno stupore quieto (2012); Svenimenti a distanza (2018); Bestia divina (2020). Tra i suoi lavori saggistici, l’edizione critica del poema Il Tempo di Gabriele Rossetti (2012) e l’edizione e la traduzione dell’Epistola De Cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (2012). Suoi testi sulle principali riviste culturali italiane, da «Paragone» a «il verri», da «Nuovi Argomenti» a «Caffè Michelangiolo», dall’«Almanacco dello Specchio» a «Poesia». Nel 2017 gli è stato conferito, ad honorem, il Premio internazionale Prata per la critica letteraria. Ha curato il Dizionario critico della poesia italiana (1945-2020), di prossima pubblicazione.

Qual è (o quale dovrebbe essere) la lingua ideale della poesia?

La parola della poesia custodisce, in sé, un paradosso estremo: quello di dover sempre dire ciò che non è stato ancora detto. Ma dovrebbe toccare, se possibile, un livello più alto ancora, più difficile e più pericoloso: dire ciò che è indicibile. Soltanto in questo modo la poesia potrà infine avvicinarsi al suo scopo supremo: trasformare la parola della comunicazione e dello scambio, la parola schiava dell’utile, del calcolo e dell’avere, in una parola dell’essere e della conoscenza – una parola, insomma, epistemica, fondante, primigenia.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

Ricorro spesso alla lettura dell’innalzante aforisma n. 553 di Morgenröte del grande filosofo di Röcken: uno sprone vivificante di vertiginosa e dionisiaca altitudine.
Un altro meraviglioso balsamo – risvegliante come un eterno bacio di Kundry – è, poi, costituito dalla costante meditazione sopra l’ultima quartina della poesia goethiana Selige Sehnsucht: «E finché non avrai compreso e posseduto una verità, / questa verità: muori e divieni! /, sarai soltanto un ospite infelice / sulla terra oscura». Da un lato, leggiamo un programma di vita che è quasi, diresti, una sorta di rigoroso esercizio per scomparire continuamente, dinanzi a sé stessi e agli altri («un impulso verso il sole mite»; «silenziose peregrinazioni per giorni e giorni; parlar poco, legger rado e cauto, vivere soli, abitudini pulite, quasi soldatesche»…); dall’altro lato, invece, noi troviamo un eccitante invito a tramontare per risorgere, a trasformarci sempre per rinascere senza sosta (Stirb und werde!). Un rinascimento ciclico, inarrestabile (foriero di un’illusiva e momentanea salvazione) che, beninteso, può avvenire non in virtù delle fedi religiose, ma solo per il tramite della Bellezza e dell’arte.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo “Bestia divina”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Propongo [lasciando parlare – solo – i versi] i primi due tempi di un testo intitolato Proprio da ieri e due redazioni sensibilmente diverse (l’ultima che appare è quella definitiva) della poesia Javier (titolo poi trasformato in Ritratto di Javier). Tra una stesura e l’altra sono trascorsi alcuni mesi.

 

Proprio da ieri

1.
Proprio da ieri, la mia età mi ubbidisce in tutto.
Mio padre è un serraglio
e ha la disgrazia di amare i parenti
che non vogliono capire. Sta solo con una gamba
fuori dal silenzio, e si permette di agire
da stipato fantasma, a questa età;
con quella voce da colore ischemico;
e insomma no. Come strappare
il male andante a un nuotatore fisso, vorace.

2.
Muore a un centimetro dal suo nome. Dice che si chiamano
Ester, Goffredo, Landi, Francesi,
colleghi impiegatizi; e poi voragine di orrendo
spazio fatto di orecchie decifranti, polmoni per turisti.
Chiude fuori le labbra senza chiedere il lusso di una foto.
È ispirata in costume da bagno secolare.
Non so se dire “Ester” o sorridendo, forse, le conviene
respirare con affanno, sulle sue quattro zampe.

Apre qualche segreto che si dilata ma non dormo;
e poi siccome sei gentile; mi sembri un poco Kurt.
Se non addirittura suo fratello.
Lo stesso viso e lo stesso nervoso
crollare di tutti i polsi; lo solleva così piano, fino
a un risveglio che non verrà.

 

*
Javier

Sono uguali o mi conviene cominciare?
Hanno allarmati pesi: forse un parziale viso quando,
in un eccesso di verità, fanno passare
le voci intere in ospedale.
Il respiro comune perde il bicchiere; la ferita la scuso
come un cosmico libro.
Siamo più umani senza una lingua? Il fatto è che
Luisa ha un marito dimostrante; si veste, da sola,
un corpo-orecchio fino a tardi.
È un miracolo disastro: se tutto fosse buono.
Invece ha proprio una fatica da pavimento; così sta lì,
più disperata di un santo.

 

*
Ritratto di Javier

1.
Sono uguali o mi conviene cominciare?
Hanno allarmati pesi: forse un parziale viso quando,
in un eccesso di verità, fanno passare
le voci intere in ospedale.
Il respiro comune perde il bicchiere.
La ferita, la scuso
come un cosmico libro.

Siamo più umani senza una lingua? Il fatto è che
Luisa ha un marito dimostrante; si veste, da sola,
un corpo-orecchio fino a tardi.

2.
È un miracolo disastro: se tutto fosse buono.
Invece ha proprio una fatica da pavimento; così sta lì,
più disperata di un santo.

3.
Le ripeto: è una vacanza buona, sottile;
ma non mi crede né lei né in calzamaglia.
Tra queste cose, Luisa vuole un giorno di fame;
siede a fondo, come racconta, in un demente amore.
Sarà uno sbaglio o no?

 

in copertina ph di proprietà dell’Autore.

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