Alexei Jawlensky Houses in Wasserburg on the Inn, 1906 renato pennisi
Alexei Jawlensky, Case a Wasserburg sul fiume Inn

Cara Grazia, caro Luigi, ne avrei di cose da dire sulla poesia che vorrebbero uscire tutte insieme e mi causano una specie di afasia. Allora calma, devo rilassarmi, e partiamo. Meglio annotare poche cose, quelle che mi bruciano maggiormente.
La prima questione è come giustificare la poesia nel tempo presente. Il Novecento è stato il secolo della decima musa, il cinema, che ha fagocitato l’essenza stessa delle altre arti, le ha rimodulate e modellate secondo le proprie necessità. Il teatro è stata la prima vittima, e poi la letteratura tutta, quella che racconta, quella che rappresenta, quella che incarna la ribellione e le insoddisfazioni. E poi la musica, divenuta colonna sonora, e poi le arti figurative divenute scenografie, come nello smagliante Barry Lindon di Kubrikc e nell’espressivo L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, pittura che diviene fotografia e quindi fotogramma, e quindi movimento e azione. E poi la poesia che è il fremito, l’accensione improvvisa e violenta che attraversa le arti, la bellezza che ci sopraffà, il timore di star male per una emozione che ci rivolta. E tutto questo lo sapevano quegli artisti che hanno abbracciato il cinema, ci si sono nascosti dentro e hanno raccontato, animato, suggestionato come De Sica e Chaplin, come Pasolini.
Il cinema si è cibato di tutto questo per l’intero secolo scorso, ha messo tutto il resto all’angolo. Non c’era più necessità del melodramma, perché il cinema è melodramma, e neppure del teatro, e neppure della poesia perché c’è più poesia in Baaria di Tornatore che in decine e decine di libri di versi che nessuno ha voglia di leggere.
Il dato drammatico, a mio parere, è che il cinema è stato a sua volta aggredito, e questo nessuno se lo aspettava, dai nuovi media. Ma Internet non è un’arte, è una tecnologia che non attrae il meglio e il misterico delle arti come ha fatto il cinema, ma la attrae la spazzatura, le sconcezze, il violento. Si dirà che ci consente di simulare la visita in un grande museo, ecco l’altro problema. Mentre il cinema, la fotografia, la musica, il romanzo creano, Internet simula contaminando decine di canali televisivi che si sono configurati, scopiazzandone gusti e nevrosi, alle migliaia e migliaia di siti visitabili. Mi chiedo, ma come si fa a stare un’ora davanti alla televisione a vedere come si cuociono i biscotti in California, o a sentire le disquisizioni sulla statica di un ponte su un fiume in Oregon? O ad assistere alle pruderie degli adolescenti (proposte ad arte per provocare senili reminiscenze e voyerismi), o a come ci si può tatuare la pianta dei piedi? Non è che tutta questa millantata ampia possibilità di scelta non nascondi in realtà il nulla del nostro tempo?
Io che sono cresciuto e stavo per invecchiare quietamente davanti alla televisione mi trovo spaesato a fare zapping per qualche ora senza trovare nulla di appetibile. Che tutto questo accada perché è stata espulsa la poesia, cioè l’immaginazione? Mi impressiona riflettere sul punto che appartengo a quella generazione che sognava, e gridava per le strade slogan come Vogliamo l’immaginazione al potere. Perché mi pare che oggi, in questo mondo spaventato, i consumi vengono orientati a soddisfare le proprie curiosità, anche le più morbose e, una volta ma oggi non più, indicibili.
Parlare di poesia oggi ha senso, mi pare, soltanto se si ha ancora voglia di mistero, di sogni, di utopie. Perché il mondo che vedo oggi, dove non ci sono più guerre fredde ma tremendamente calde, è un mondo che ai giovani non piace ma da cui sono irrefrenabilmente attratti. Perché il mondo di oggi non ha più il Muro, e infatti sbucano da tutte le parti esaltati, popoli che non hanno nulla da perdere, mentre l’Occidente si strenua in appassionanti, si fa per dire, polemiche sull’obesità, sui nuovi piatti esotici etc. ect..
Personalmente la poesia che continuo a leggere mi sembra per lo più minimalista e disimpegnata. Questo, negli anni, mi è diventato sempre più insopportabile. Il collocarsi all’angolo è la chiara premessa per scomparire.

Quattro inediti di Renato Pennisi

Le donne sono scese dai loro suk
variopinti indossano i nostri capi
d’acqua torbida
c’è animazione nei viali da basso impero
una sorta di pericolo impaziente
tra le ringhiere va una foglia sospesa
le scivola dentro una goccia della
pioggia prossima sui tetti.

*

È sui ruderi
la linea degli eventi
corrono i desideri da occidente
da oriente le genti, i musulmani
col muro è finita la paura
anche l’equilibrio, la perenne attesa.

Un po’ di tempo ci vorrà
dominano gli investitori
i fili stretti delle banche
e anche il valore per la mano
che stringe ogni moneta.

*

Lo scirocco libico ha velato
di sabbia rossa le finestre e il limone
l’umidità della notte ne fa
un fango sottile, secca poi a giorno
crepa, sfalsa i colori
delle auto ferme.

La pioggia la raccoglie
sotto il marciapiede, ne è rimasta tra i capelli
ne è nota la provenienza
ma lo scirocco spesso torna
la solleva la porta altrove, la scaglia
contro le scogliere
la soffia fino a Stromboli, e oltre.

Bisognerà rifarlo il bucato
e stenderlo di nuovo.

*

Il paese delle sterpaglie
pochi alberi, caseggiati
sui costoni impervi
luoghi che la solitudine li esasperano
e nella tranquillità galleggiano
le parole
una ricchezza dilapidata.

Sono preferibili
– per quanto ci abbia messo
tutta l’attenzione possibile –
le cose che non evocano
perché morire è sparire
dalla pagina, l’angolo piegato
la parte migliore
del libro, indiscutibilmente
lo sanno tutti dall’altra parte
del mare.

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