«La mano libera rapprende / L’azzurro sulle voci del quartiere, / Scopre il nudo tra il cielo e la strada, / Le crepe negli sguardi dei passanti. // Adesso so quanta folla dimora / Nella mia inerzia. Ancora / Mi sento respirare sotto il sale.». Versi introspettivi di Roberto Deidier filtrati dal libro “Solstizio”, Mondadori 2014, con il quale ha vinto la sezione poesia del XLVI Premio Letterario Brancati Zafferana.
Quali i ricordi legati alle prime poesie?
Ho iniziato presto, descrivendo quello che avevo intorno, la casa, i muri, i giardini. Quel quaderno si perse in un trasloco e ci rimasi male al punto di non voler scrivere più. Poi è accaduto di nuovo, verso i vent’anni. Quando pensai di avere un numero sufficiente di poesie cominciai a farle leggere ai poeti che stimavo. Il ricordo più forte resta senz’altro quello di aver salito le scale di Amelia Rosselli per avere un primo parere sul mio lavoro. La mia vita nella poesia è cominciata da lì.
Quali poeti (o, più genericamente, autori) consiglierebbe per una buona formazione?
Non ho mai creduto, per quello che riguarda la modernità, alla persistenza di un canone. Ognuno è libero di scegliere i propri autori e di imbattersi in chi vuole. Resto convinto, però, che per fare poesia ci si debba nutrire di molto altro, e in sostanza non solo di poesia. Si deve lavorare per costruirsi una lingua e un sistema di immagini. Gli stimoli più intensi a volte possono provenire dalla lettura di un saggio o di un testo scientifico.
Per Mario Luzi “la parola che il poeta usa è una parola che in genere è richiamata alla sua integrità e alla sua pienezza di significato: è potenziata al punto da esplicare quella creatività e provocarla in altri”, per Roberto Deidier?
Non si può non essere d’accordo. La parola della poesia cerca anzitutto la sua efficacia. Non può esser scelta a caso, non può essere sostituita o parafrasata. È parola totale, assoluta, che instaura un dialogo altrettanto assoluto. Così può accadere che nel ripercorrerne gli strati di significato, un lettore possa infine imbattersi nella scoperta della propria creatività.
“Implodono giorni, lustri, destini.”, con i suoi versi per chiederle: la poesia può sanare la vulnerabilità del tempo?
Credo che la poesia sia arrivata prima dove poi sarebbe arrivata – e ancora cerca di arrivare – la fisica. Sul tempo sappiamo ancora troppo poco. La poesia ci ha aiutato a comprenderne la labilità dei confini, la complessità. Viviamo in un tempo che è assoluto e relativo, reversibile e irreversibile insieme. Può sembrare un paradosso, ma ho sempre più la convinzione che in poesia il tempo non esista, che si sia fatto, cioè, puro ritmo. Un verso, da questo punto di vista, è solo un segmento di qualcosa che è infinito. E poi c’è il tempo ciclico del mito, che è tra le materie prime dei poeti, da sempre. Siamo piuttosto noi, allora, a sentirci vulnerabili davanti al tempo, perché scontiamo la nostra finitudine. Così ci affidiamo alla poesia come a un antidoto, o a un esorcismo, nei confronti della morte.
Riporterebbe un breve passo (versi o prosa) nel quale è solito “rifugiarsi”?
Faccio il mio rapidissimo elenco, piuttosto. Dante, qualsiasi luogo dell’Inferno; L’infinito di Leopardi; il finale delle Città invisibili di Calvino; e quel brano in cui Adriano, nelle Memorie della Yourcenar, dice che ogni volta che prende in esame la sua vita si spaventa di trovarla informe.
Pensando alla sua sensibilità di critico letterario, domando: come ritrarrebbe (in sintesi) l’attuale (e giovane) panorama poetico italiano?
Temo che ci sia un problema d’identità sovrapposto a quello della poesia. C’è una corsa incredibile al libro, alla pubblicazione, al fai-da-te, e una volontà di non dialogare con chi lavora da più tempo. Prolificano siti, blog, piccoli editori che pubblicano di tutto, senza un vero filtro di qualità. Di solito dietro a questo atteggiamento ci sono atteggiamenti iperletterari, ovvero percorsi che sono ancora lontani da un punto di maturazione. Questo sul piano generale. Poi naturalmente ci sono persone che studiano e lavorano seriamente e attendono i tempi giusti: qui il panorama è davvero promettente e ricco di soluzioni. Vorrei ricordare almeno tre nomi in cui credo: Marco Aragno, Marco Corsi, Piergiorgio Viti, ma ve ne sono molti altri, a riprova della grande vitalità.
In conclusione, chiarendoci perché l’ha scelta, la invito a riportare una sua poesia (dal libro “Solstizio”) per salutare i nostri lettori.
Si intitola “In cucina” ed è nata osservando una foto. La fissità del passato e l’attesa di un futuro da ignorare. Ecco, per l’appunto, una poesia per esorcizzare il tempo.
La dubbia sincerità dei ricordi
Come la luce sposta le ombre
Da una parte all’altra del giorno.
Il tavolo è ancora sgombro
E la sedia è vuota.
Nervosamente il cane del vicino
Sale e scende per gradini di metallo.
Ascolto le unghie.
Su quella mensola c’era la tua foto
In una cornice rossa.
Sedevi sdraiato sull’erba.
Doveva essere un prato a primavera,
Soffioni e abiti leggeri.
Un buon modo per rodare il mattino,
Di qua e di là dallo spessore del vetro
Restiamo a guardarci
Facendo finta che il futuro non esista.
* la versione ridotta della stessa intervista è stata pubblicata sul quotidiano LA SICILIA in data 24.09.2015