#1Libroin5W.: Gandolfo Cascio, “Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti”, Marsilio.

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Chi?

Il libro ha senz’altro un inevitabile attore protagonista, Dante, cui si accompagnano però diversi coprimari: tutti scrittori, sia quelli che conobbe personalmente, sia alcuni venuti dopo. Si ha l’idea che Dante fosse un uomo severissimo, solitario, magari arrabbiato con il mondo. Certamente è stato e resta l’esempio più luminoso di morale e la sua intransigenza ha un fondamento solido e percepito da tutti nella Commedia. Tuttavia non bisogna dimenticare che di Dante ce ne sono almeno due: infatti, da una parte, direi ‘fuori dal libro’, c’è il giudice integerrimo e incorruttibile che – assecondando le imperturbabili leggi dell’etica – distribuisce condanne e premi; dall’altra invece c’è il personaggio, il pellegrino che incontra molte anime con cui conversa e per loro sovente riesce a provare una profonda empatia: si pensi all’episodio di Francesca e Paolo o a quello con Piero. Altrettanto vero è che Dante provasse un profondo disagio esistenziale, soprattutto a Firenze, e non solo per la situazione politica che alla fine perfino lo esiliò, ma anche per quella sociale (ma questo credo che valga anche per le altre città che lo ospitarono), dato che ormai quasi tutti gli appaiono esclusivamente dedicati a soddisfare le proprie ambizioni materiali, anche quando tanti affanni gli appaiono insensati e perfino dannosi alla propria esistenza e, in misura ancora maggiore, alla salute dell’anima. Che senso ha passare dalla vita già agiata allo scialo, dal legittimo benessere della città al dominio, principalmente attraverso il fiorino e i commerci, sulle altre («Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande!»: Inf. XXVI 1-3)? Tutto ciò per lui, che raccomandava una vita sobria e messa a punto dalla “gentilezza”, risulta insopportabile, è un’offesa alla ragione.

L’idea di un Dante solo e appartato invece non coincide con la realtà, né quella biografica né quella letteraria che mi interessa maggiormente. Già da giovanissimo provò a entrare nei circoli poetici, dimostrando di sentire la necessità di stare assieme agli altri e con loro confrontarsi, conversare, divertirsi. Spassoso è perfino l’episodio che lo vede mandare una sua poesia, A ciascun’alma presa e gentil core (Rime I), a diversi poeti affermati  – Cavalcanti, Cino da Pistoia e Dante da Maiano –. Se i primi lo presero sul serio e gli risposero, Da Maiano, probabilmente perché più anziano, gli diede una bella batosta, raccomandandogli di lavarsi la «coglia largamente, / a ciò che stinga e passi lo vapore»: in altre parole gli consiglia di raffreddare quella sua eccitazione giovanile. Per non dire poi di quella poesia luminosa e fantastica che è Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime LII) in cui Dante invita i suoi amici a fare una gita in barca assieme alle proprie ragazze per parlare sempre e solo d’amore:

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio.
[…]
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Tra questi amici il «primo» è Guido Cavalcanti, con cui poi interrompe i contatti per una diversa visione dell’amore: passionale e tormentato per Guido, beato e salvifico per Dante; ma molto importante è anche l’amicizia con Forese Donati con cui in gioventù aveva sostenuto un duello poetico. In quell’occasione entrambi, ma per gioco, se le danno di santa ragione; poi però, quando lo ritrova in purgatorio iniziano a parlare con la tenerezza che li aveva uniti. Del resto, in tutta la Commedia Dante non è (quasi) mai solo, e non solo perché ciò gli è imposto dalla costruzione teatrale del libro, ma pure perché pare godere di questa compagnia.

Cosa?

Il tema del libro, come suggerisce il sottotitolo, è la letteratura, la riflessione su sé stessa, sul suo significato e ragioni. In particolare nel secondo, e più lungo, capitolo propongo le lecturae di alcuni canti in cui è il tema centrale. Seguendo l’ordine dei canti mi soffermo su Inferno IV e V, Purgatorio II, VI, XXIII-XXVI, e provo a illustrare come Dante intese quest’arte. Si vedrà che si dispiega in concetti diversi: da quello di gruppo di pari, a quello di patria, e perfino a uno negativo come quello di ingenua imitazione. Sì, perché non basta essere appassionati della lettura quando ciò può portarci a confondere il reale e il fantastico, la vita con l’avventura libresca.

Nel sottotitolo, però, si fa riferimento anche ai poeti e alle loro relazioni: dapprima quella tra Dante e  i giovani lirici, come ho detto, ma anche tra il poeta medievale e altri scrittori che a lui hanno guardato come modello o ‘ispirazione’, e che dunque non possono più considerarsi cei ‘lettori comuni’. Tra i tanti casi a disposizione – notissimi quelli di Eliot, Pound o Montale – ne ho scelto alcuni non ancora studiati. Sono Baretti, Borgese e Santagata, che condividono la ‘qualifica’ di scrittori-critici, e che, in periodi e modi diversi, hanno fatto di Dante uno strumento per difendere la lingua italiana, un modello da seguire, soprattutto in esilio, o anche un personaggio utile alle proprie invenzioni romanzesche. L’ultimo capitolo, a me molto caro, mostra come tali conversazioni tra scrittori oltrepassino ogni confine, di spazio e tempo, e di come lo stesso Dante a suo tempo avesse guardato a Ovidio; mentre in tempi più recenti Mandel’štam si sia rivolto a entrambi per riepilogare il senso comune delle rispettive esistenze e chiudendo, in qualche modo, un cerchio che tuttavia resta in continuo movimento. 

Quando?

Da sempre mi seduce l’idea che gli scrittori non siano dei lettori come gli altri, ma che tra di loro si leggano con ammirazione, magari invidia, si spiano e, perché no?, se capita si rubano qualche verso. Mi sono occupato, ad esempio, del rapporto tra Sandro Penna e Natalia Ginzburg, dei poeti traduttori e, in modo più ampio di Michelangelo nel mio precedente libro Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori (Marsilio, 2019).

Ormai era arrivato il momento di indagare questo fenomeno nel poeta dei poeti: e non uso quest’espressione solo nel senso di un primato, ma soprattutto perché è il poeta cui, non solo in Italia, guardano gli altri scrittori. Del resto anche Dante nel quarto canto dell’Inferno, assai celebre perché qui, dopo Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e, naturalmente, Virgilio che l’accompagna, si pone «sesto tra cotanto senno» (v. 102). A me interessava tuttavia un altro verso che segue quasi subito in cui Dante, assieme a questi poeti, si allontana dal lettore e insieme s’incamminano «parlando cose che ’l tacere è bello» (v. 104). Come tanti mi sono chiesto ripetute volte cosa mai si saranno detti, eppure né io né altri avrà mai una risposta soddisfacente che squaderni appieno un rapporto così particolare e intimo. Dante, insomma, ci dice che gli scrittori, sì, si intendono tra di loro, ma non è disposto a svelarci il modo per scardinare questa porta che si chiude dietro; tutt’al piu lo fa in negativo, ossia raccomandandoci di non tentare in un’impresa che è destinata a fallire.

Dove?

Io non faccio parte della romantica cerchia di studiosi che predilige la notte per scrivere; assomiglio di più a un chierico: mi sveglio abbastanza presto e generalmente trascorro la mattina a studiare o a dare lezione all’università; la sera leggo «per diletto»; alla scrittura perciò sono riservate le ore del meriggio (che, infatti, è il titolo di un volume che raccoglie alcuni miei saggi e a cui sono molto legato).

Perché?

Mi auguro che questo libro trovi un suo spazio, per quanto piccolo e modesto, nell’incommensurabile bibliografia dantesca. Io l’ho scritto per due motivi: il primo è quello di condividere con chi vorrà le mie riflessioni, e questo è anche il motivo che mi ha spinto a pubblicarlo; l’altro è più intimo, ma credo riguardi chiunque decida di annotare qualche esperienza, avventura, desiderio. Nel mio caso, così com’è per ogni saggista, si è trattato di fermare il ricordo delle mie letture, dei pensieri e delle azioni che queste hanno eccitato. Sembrerebbero due ragioni che si contraddicono – quella vuol fare circolare, mentre questa vuole fermare – mentre invece sono complementari ed entrambe nobili, oso pensare.  

 

 

scelti per voi

 

Questo passo è ripreso dall’introduzione e in queste righe vengono disposte una dopo l’altra alcune ragioni che hanno suggerito ai poeti di scrivere: si va dall’ira di Achille alla smania di Marino di stupire; e poi c’è Dante, che scrive per risolvere altre questioni:

«È inutile chiedersi perché i poeti scrivano le loro fantasticherie. La primizia fu la collera d’un ragazzo, e da lì, di volta in volta, si può provare a indicare dei moventi o intenti che, d’altronde, per ognuno sono diversi; per non dire poi del fatto che, col tempo, possono anche mutare. Da tremila anni si dettano versi per la scienza delle cose, perché in adorazione della grammatica, per compiacere una distante chimera, sospendere le rimerie che inquietano giorno e notte il cervello, per dono a chi è degno di lode, come lamento luttuoso, a favore dell’aereo capriccio, per stregare, stupire o – come capita all’evangelista analfabeta, mite al comando del pulito ditino dell’angiolo – per obbedienza». (p. 9)

Mi piace poi condividere anche queste altre righe che parlano di Francesca in cui ho provato a rileggere il canto V riavvicinandomi a Dante e mettendo da parte le letture romantiche di quest’episodio:

«Francesca ostenta – e anche questo esibizionismo è un errore per eccesso – la propria conoscenza da manuale, citando a menadito gli autori che le sono cari. Il fatto è però che questa sua scienza è ormai del tutto inconsapevole e pare che abbia cannibalizzato questi autori. Nonostante la gravità, lo sbaglio non è però da ricercare nella frenesia citazionale. Questo, semmai, è il sintomo d’un male più nascosto […], Francesca infatti vuole rivivere l’avventura, oltre alle emozioni, raccontate nel romanzo arturiano, e per farlo sovrappone sé stessa e i due uomini della sua vita ai personaggi originali (ma finzionali). Lancillotto (qui Paolo) è un cavaliere della Tavola Rotonda di re Artù e s’innamora della regina Ginevra (Francesca), moglie d’Artù (Gianciotto). Come si nota, al linguaggio letterario (astratto) Francesca ha dovuto dare una corporalità concreta, tant’è che anche il libro viene in qualche modo metamorfizzato, per cui il ruolo da mezzano svolto da Galeotto, a Rimini è sostituito dal libro stesso. L’episodio, che in sé raccoglie gli elementi drammatici (nel significato letterale di azione) dell’amore cortese – si legga: adulterino – non ha però tenuto conto della realtà: l’arrivo funesto, quanto comico (se non fosse per il finale), del marito cornuto ma non stupido.

Tra l’altro, c’è da apprezzare il marchingegno narrativo, perfetto e malizioso, che lascia presumere che i cognati già in altre occasioni avevano almeno sfogliato assieme il testo arturiano, o qualche altro racconto del genere, dato che la puntualizzazione temporale, «quel giorno», non fa indovinare con precisione se l’atto fu interrotto, per la prima e unica volta, per assecondare ἔρως (prima dell’arrivo del marito/fratello) o perché già in quell’attimo vennero braccati da θάνατος. È tale ambiguità che, alla fine, lascia il lettore libero d’interpretare il testo come vuole». (pp. 60-61)

 

in copertina foto di Piero Messineo

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