Ringrazio l’EstroVerso per questa proposta di parlare del mio ultimo libro di poesie, Luce del più vasto giorno, peQuod edizioni – 2022, seguendo un metodo che ha costituito quasi una seconda fase nella vita del testo, permettendomi di rinvenirvi persistenze tematiche e itinerari di sviluppo, che seppur presenti, erano rimasti come taciuti, assorbiti dall’impulso esclusivo dell’esercizio di scrittura.
Chi?
Vi sono molti protagonisti nel mio libro, Luce del più vasto giorno; proverò a delinearli per come so e come posso, ma tutti si possono riassumere in una Voce che chiede di essere ascoltata, che chiede asilo a ogni poeta, chiede insomma che gli si dia finalmente carne, colore, timbro, spessore esistenziale. Si tratta di quella voce che soggiace al fondo del nostro essere uomini, comune a tutti, la voce stessa dell’Essere che costituisce la tramatura della nostra natura umana, e di cui noi siamo una modestissima e imperfetta manifestazione; di quel qualcosa che, come dice San Paolo (Romani 8, 26-27), parla in noi con gemiti inesprimibili, e che ha bisogno dunque della parola per inverarsi nel concreto dell’esistere.
Tutto il mio cammino poetico, sin dai suoi inizi, è stato questo tentativo di dare forma a questa voce, sapendo che dando forma a essa, avrei dato forma a me stesso. In questo libro l’ho riconosciuta come un amore antico quanto la mia stessa nascita, luce che a volte visita la notte in cui siamo immersi, fiume che sotterraneamente incide, con la forza della sua corrente, la sua lingua in noi; parola che ha il carattere del continuo appello (Rialzati, giunge ancora l’alba…), e che invita l’uomo ad adempiere al proprio e indifferibile compito di essere umano. Dunque poesia come riconoscimento, come risposta, in un certo senso anche etica, a qualcosa che sappiamo essere in noi, che è noi, ma che non si identifica totalmente col noi.
Di riflesso ho provato quindi a riconoscere echi di questa voce nelle figure che mi hanno segnato di più: i miei nonni, mia madre col suo canto, mio padre con la sua vocazione alla concretezza e alla legge dei numeri, e poi gli amici, in modo particolare uno che poi divenne sacerdote e che scrisse il suo libro meraviglioso senza mai trascrivere un verso; e infine la natura che sempre mi ha aiutato, e mi aiuta ancora, a dare volto a ciò cui non posso dare volto.
Si tratta forse di una poesia non ancora del tutto pacificata, che ha imparato, o sta imparando, che il cielo è un approdo cui giungere senza necessariamente perdere ciò che la vita ha di bello, perché non c’è bello che non sia riflesso di una dimensione in cui il tutto è tale se comprende e armonizza le singole parti, se ricorda il nome anche delle piccole cose. E quindi è anche ombra, altra protagonista dei miei versi, vera sorella della luce, e poi, per ultima, lei, la poesia stessa, perché credo che ogni poeta quando scrive dia sempre appuntamento a se stesso, facendo della creazione poetica, un tempo di avvento che ha il sapore o il sentore dell’alba, ovvero di un nuovo e continuo inizio cui siamo chiamati.
Credo, infine, che al centro del libro vi sia un io poetico che, chiamato a rileggere uno di quei momenti critici che la vita ci offre, abbia finalmente iniziato a fare chiarezza in sé (luce del più vasto giorno), impegnandosi a rivedere, senza condanna, il tempo passato e a iniziare quello futuro, con la memoria delle cadute, ma senza che il loro peso precluda il cammino ancora da fare.
Cosa?
Magari mi ripeterò, ma nel libro è all’opera un io poetico che ha intrapreso un viaggio nella memoria con l’intento di andare a rivedere non tanto gli eventi in sé, ma la loro tenuta, il loro linguaggio nascosto, quella cifra resistente all’opera abrasiva del tempo. Usando forse vecchi concetti, ciò è sintetizzabile nella ricerca di una dimensione di permanenza entro il fluire inarrestabile del tempo. C’ è sicuramente il desiderio di ricomporsi entro una storia umana (quella di chi mi ha preceduto, facendo in modo che io fossi), di coglierla e farla propria per poterne esserne degni, di un ritorno a casa, a un mare antico che pur assembrando tutto, riesce a non tradire mai la propria bellezza originaria; un desiderio per il quale si è disposti a perdere anche il dono della poesia per potersi ricomporre in un’armonia elementare fatta di materia e non di altro. L’altro o l’altrove, pur presente in tante pagine, è una dimensione non parallela, né di ordine superiore, semmai un approdo cui si giunge con la fatica dello scavo, dello scendere giù fino alla lacerazione di un diaframma che consentirà di vedere finalmente il molo da cui partimmo e a cui faremo ritorno. E insieme a ciò, la fede, la fede che sempre opera in noi, spingendoci a vedere lontano, oltre/ questo verde, dentro / un vento duro, tramontàno; la fede che è la capacità di sperare quando ancora c’è nebbia, di fidare nella dimora prima che questa appaia. E tra la memoria e la sete dell’approdo definitivo, vi è il peso e il tempo della strada, quella che abbiamo percorso e che stiamo percorrendo, con le sue fatiche e le sue esigenze. La strada per me è davvero maestra, educando all’ esercizio della perdita, al riconoscimento dell’essenziale, all’acquisizione di quella necessaria pazienza del camminatore grazie alla quale la meta finale non si traduce in un’illusione, ma in un traguardo che s’invera giorno dopo giorno, passo dopo passo; per ultimo costituisce una lezione fondamentale che ci aiuta a prendere congedo dalle cose, che meglio si vedono e si apprezzano quando facciamo in modo di non collocarle nella categoria dell’utile e o del funzionale.
Quando?
Questo libro si compone di diversi libri, di cui il più vecchio risale a dopo il 2009. Quell’anno segna un cambio radicale nella mia vita e nella mia poesia: un infarto mi costringe a un lungo periodo di stasi, e il riposo forzato serve a riprendere le letture e a rivedere i binari sui quali fino ad allora aveva viaggiato la mia poesia. Ne sono uscito con una percezione nuova della mia interiorità (quasi un nuovo inizio…), della realtà (ogni cosa mi pareva nuova…) e della poesia (capii che la poesia della ricerca e del domandare doveva lasciar posto alla poesia della restituzione). Cominciai a scrivere nuovi versi che confluirono in un libro, A più tremanti mani, che ebbe i suoi riconoscimenti in vari concorsi nazionali. Da allora sono trascorsi diversi anni e quando nel 2021 mi giunse la proposta di Luca Pizzolitto di uscire con la collana Portosepolto, mi sono trovato con del materiale un po’ datato che dovevo integrare con poesie nuove, che intanto avevo composto, e dal taglio stilistico diverso. Ero davanti a una scelta: o sacrificare ciò che avevo scritto o salvarlo. Ho scelto di essere giusto nei confronti del mio lavoro e delle mie poesie, e dunque le ho sottoposte a un lavoro di revisione, tale però da non compromettere la vicenda umana da cui erano nate né la loro scintilla originaria. Chi legge così potrà farsi un’idea circa il mio percorso poetico.
Dove?
Concretamente, in stanze d’ospedale e a casa, per strada soprattutto, camminando. Non so perché, ma camminando è come se pensiero e parola si fondessero naturalmente in un ritmo naturale da cui si originano poesie che richiedono poi pochissime revisioni. In ogni caso, al fondo di me stesso, perché le mie sono poesie che hanno bisogno di silenzio (ma credo che ciò valga per tutte) e della mia temporanea assenza dal mondo e dal suo rumore.
Perchè?
Nessun poeta scrive per gli altri. Chi scrive, scrive per se stesso, quando la scrittura è veramente autentica e non condizionata dalle leggi del mercato. Scrivere è per me un atto di verità che compio sia interiormente che visibilmente attraverso l’inchiostro che si deposita su un foglio. E’ atto necessario al mio stesso vivere, è vita, non propedeutica alla vita. Sono felice quando i miei versi rimano profondamente col mio essere più profondo, più interiore, e credo sia felice la Vita stessa nel riconoscersi nelle parole con cui la chiamiamo alla luce, celebrandola. La poesia è un appuntamento che l’uomo ha con se stesso, con la verità che ha dentro e che ancora non sa, fino a quando la parola poetica non gliela porge.
Luce del più vasto giorno è il titolo che ho dato a questa raccolta. Esso dice che nella vita di ciascuno vi sono le cadute, ma che ogni caduta, se vissuta nella prospettiva della fede, è un’occasione di verità interiore. La luce che si sprigiona in certi momenti, segnati dalla fragilità fisica, può farsi propellente che spinge a un approccio diverso alla vita: non più sicurezze, ma aperture e disponibilità, non più logiche di possesso e di auto celebrazione, ma riscoperta del valore della fraternità e della condivisione, non più parole cercate, ma ospitate per rendere giustizia alla bellezza di cui è fatta la materia dei giorni.
Credo che la lettura di questo libro possa far bene a chi si porta dentro l’esperienza della fragilità e della caduta, potendovi trovare dentro un motivo per ritrovare la forza di rialzarsi e andare avanti.
Di fronte all’inflazione dei concorsi e dei libri di poesia, ci si chiede che senso abbia ancora perseguire su questa strada. Ho già risposto che la poesia è per me un modo (altri ne conosceranno di diversi…) per approdare a una conoscenza diversa della propria e indefinibile interiorità. Personalmente non sono preoccupato per la poesia: questa infatti saprà cercasi le proprie voci, quelle che meglio esprimeranno ciò che lei suggerisce nel profondo. Ritengo però che, prima della poesia, vi sia una “dimensione poetica” che ci chiama in causa tutti, e che dobbiamo salvaguardare dalle forme di un vivere sempre più omologate alle leggi del mercato. Per dimensione poetica intendo un modo diverso di stare al mondo, con se stessi, gli altri, la natura; un modo incentrato sulla nozione di gratitudine e non su quella prepotente dell’io.
Questo forse è il compito della poesia e di ogni poeta, credo: ricordare che c’è un modo diverso di vivere e di approcciarsi alla vita, e che questa è veramente tale, quando le si offre spazio e tempo per essere ciò che vuole e ama essere.
Scelte per voi
(Palermo, via Dante 2020)
Memoria, fa che non dimentichi,
che il tempo non deturpi il dono,
la gioia di una seconda nascita.
Ai capitelli caduti, alle colonne frante
dai la gioia di reggere, intatto, l’azzurro del cielo.
—
Ho legato la parola alla nozione
dei dintorni
lontana dal centro
dai vertici
dai picchi.
Scavo in periferie d’anime
rivolto l’humus
vi affondo le mani
annerendo le mie unghie.
Vorrei parlare di resurrezione
salvando l’orlo così fragile delle foglie in autunno.
—
E il comporre, la sintassi
che chiedi, la logica
intrinseca all’accadere,
cercala nella stratificazione
dell’humus che non tradisce
l’ordine né l’origine,
domandala alla carne
quando esulta alla parola amore,
all’istante che ti apre
interamente alla verità.
Puoi cambiare l’ordine dell’apparire
ma nel solco, dentro l’alveo
è il fiume che scrive, la sua corrente.