1Libroin5WPOESIA.: Grazia Procino, “Filottete ovvero I vuoti ancora da sfamare”, peQuod.

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Chi?
“Filottete ovvero i vuoti ancora da sfamare” è la ricerca-studio sulle figure del mito, contrassegnate dalla tragica solitudine e dalla sconfitta nel confronto e nello scontro con il mondo. A partire dallo sfortunato Filottete, che, ferito, viene abbandonato su un’isola deserta dai suoi compagni guerrieri, fino a comprendere, in una galleria poetica, le figure di Palamede, Priamo, Ifigenia, Calipso, Arianna; l’opera ridisegna, in una prospettiva ribaltata e pasoliniana, la centralità dei vinti, perfino la loro irrinunciabile esemplarità, nell’esigenza avvertita di rendere la tradizione del mito ancora dialogante con la contemporaneità.

Cosa?
La malattia, l’allontanamento, la solitudine, la memoria e la parola: in altri termini, le condizioni con cui spesso l’essere umano è chiamato a confrontarsi, si collocano al centro dell’ispirazione di questa silloge. L’uomo si è sempre interrogato, filosoficamente e poeticamente, sul senso del dolore, della sofferenza e, infine, della morte. Filottete è l’archetipo dell’eroe che, in un contraccolpo della fortuna, diventa escluso e reietto nella comunità di appartenenza e nello stesso tempo rappresenta il prescelto per un nuovo cammino. La scrittura poetica del “Filottete” ci spinge a guardare dove non vorremmo, poiché l’avversione del re di Itaca Odisseo verso il malato Filottete è sovente la nostra. Ma non si tratta solo dell’istintiva repulsione che si prova davanti a qualcosa di spiacevole e sgradito, a una verità amara, bensì dell’atavica paura di ciò che è diverso o ignoto. Da qui la volontà di non guardare, di voltarsi dall’altra parte, nel tentativo di far scomparire il male, di eludere l’angoscia.

Quando?
Già molto prima della pandemia la figura di Filottete e degli emarginati, dei dimenticati del mito, aveva catturato la mia intenzione poetica e letteraria. Mi ero immersa nella rilettura e nello studio di questo personaggio; il periodo dell’emergenza sanitaria e l’isolamento sociale hanno illuminato di luce ancora più sinistra Filottete, il primo isolato della letteratura per motivi sanitari. Così il mito si è congiunto in un’ironia tragica con la contemporaneità e la tragica attualità ha percorso un viaggio nel passato.

Dove?
La silloge ha preso definitiva forma e corpo all’interno dell’abitazione, che per mesi e mesi è stata il rifugio e il luogo della speranza durante la pandemia da Covid. La scrittura è divenuta ancora di più esigenza primaria e obbedienza alla necessità di evadere dal frangente drammatico, ma anche filtro per ripensare ai temi della malattia, della paura verso la malattia e della morte.

Perché?
“Filottete ovvero i vuoti ancora da sfamare” è una raccolta suddivisa in sei sezioni – Poemetto, L’ingiusta sorte dei vinti, Nel nome del dolore, La fatica per la felicità, La morte fatale, La cognizione del dolore – che appare un manifesto dell’umanità più autentica, con i suoi dolori, i suoi sentimenti, le sue speranze. La silloge dipinge i rischi e le pene di una società che misconosce la persona per rincorrere convenienze e ragioni economiche: «In una notte senza sonno / sento confusamente il racconto / di te, vergine, che non conobbe / mai amore, distrutta dal potere […]» (Ifigenia, p. 22). Tuttavia, nonostante le ombre, il buio, i lunghi giorni del dolore, i versi non invitano alla remissività, alla statica sopportazione della sofferenza, al contrario, sono frecce scoccate con l’arco della passione e del vigore esistenziale: «[…] La vita è avventatezza / lo strappo che non si ripara / miserie profonde / esercitarsi alla gioia quando attorno / è solo pianto e sangue / e nugolo di insetti neri spavaldi» (p. 41). Pertanto, la raccolta è destinata a tutti coloro che vogliono cercare domande nella poesia, che vogliono intrattenere con la parola un corpo a corpo illuminante e salutare.

 

Scelti per voi
da“Filottete ovvero I vuoti ancora da sfamare” di Grazia Procino, peQuod.

 

Tra le sferzate improvvise del vero
e il male sempre in agguato
(è così, davvero)
sorpresa e gioia
è la nostra reciproca
cura a difenderci,
anche quando nessun tormento plana.
Oltre i luoghi andiamo d’accordo
a viverci addosso
oltre il tempo ci incamminiamo
perché il dolore non si comprende
né si elude:
si raffredda nell’amore.

Anche se mi esercito a tradurre
l’approdo al dolore
mi sfugge o
io mi allontano, risoluta.
Vorrei catturare l’angolo di luce
e farlo durare
accendere bellezza
mangiare per le strade assolate
con il mare addormentarmi
oppure parlarci
accogliere le voci spoglie:
io vado in cerca dell’umano
tra voli inceppati e brulicare di sogni.

La cognizione del dolore

Gli dei sanguinano
quando si accorgono
di essere stati
beffati.

(E tu, invece, ridi beffardo:
eh, già, ma tu non vuoi essere
più il mio dio che sta accanto
nella gioia e nel dolore).

Il segreto è guardare
oltre la finestra
quando il dolore non va giù,
rimane in gola,
nello stomaco un macigno,
a rantolare, a gorgogliare.
È rimasto nulla da dire:
il segreto è vomitare
il dolore, specie
quello che accarezziamo.

Scrive Giovanni Raboni: “Quando mi metto a scrivere una poesia, l’ho già praticamente scritta dentro la testa: poi naturalmente viene il lavoro artigianale, Una volta che esiste una traccia che è, ripeto, non praticamente confezionata, una traccia che viene da dentro, allora si comincia il lavoro di limatura, di aggiustamento: si trovano dei legami, si trovano delle associazioni di suoni, di ritmi, dei perfezionamenti che all’inizio si sono soltanto intuiti o sperati.” Nell’intricato percorso di scrittura dei tre testi mi è impossibile illustrare le varie fasi di stesura, essendo quotidianamente impegnata nel lavoro di “labor limae”.

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