#1Libroin5WPoesia.: Maria Benedetta Cerro, “Prove per atto unico”, Macabor.

#1Libroin5WPoesia

 

Chi?

Prima di dar cenno dei protagonisti, occorre spiegare la metafora teatrale, cui il titolo allude, parlando di “prove per atto unico”. Atto unico è la storia individuale, che a tutti è dato di vivere e rappresentare. Estremi il nascere e il morire, atti unici anch’essi, poiché non v’è che una nascita, non v’è che una vita, non v’è che una morte. Tutto il cammino della vita è da intendere come un esercizio continuo teso al superamento delle prove, in vista della prova finale, l’atto unico ed ultimo che è la Morte. Sulla scena, nell’apparente finzione che è il teatro, l’Io lirico, come protagonista della propria storia, racconta la vita. Si crede – ed è – solo, con i suoi drammi, le sue vicende. Ma accade qualcosa: una prova globale, per cui tutti, in ogni parte del mondo, si trovano ad affrontare nello stesso momento, la stessa prova. L’Io, disorientato, si scopre parte di una umanità disperata, fraterna per la prima volta, disposta alla solidarietà, a giurare pace e amore pur di scampare. Ciascuno diventa, a sua volta, protagonista e comparsa nella rappresentazione di una tragedia.

Cosa?

Nella solitudine imposta dall’isolamento, cambiano le abitudini, ma anche la visione della realtà. La mia attività poetica, ad esempio, riprende la modalità diaristica in versi: registro puntualmente gli eventi, provo a capirne le ragioni, a raccontare emozioni e sentimenti esasperati dal dolore e dallo spavento, a descrivere i mutamenti che la tragedia sta provocando nell’animo umano. Cambia soprattutto l’idea della morte. La realtà ci pone davanti una cosa che conosciamo bene, ma che vediamo per la prima volta nella sua minaccia concreta. Sappiamo che ci accompagna dalla nascita, che può coglierci in ogni momento, ma non abbiamo consapevolezza della sua ineluttabilità, la evitiamo con cura. Invece solo il rispetto della morte, la sua considerazione (O morte altissima! – dico in un mio verso -) ci permette di usare bene il tempo che ci è dato, di apprezzare il dono della vita, della bellezza, di accettare il destino di mortalità come un ciclo naturale e armonico della vita individuale e universale. Dico il senso della maschera, che è cecità e apparenza, come da protezione diventa occultamento e scomparsa, come l’invisibilità si fa motivo di allontanamento dell’altro, alimenta la diffidenza, diviene schermo e respingimento. Puntuale si concretizza il sospetto che l’isolamento abbia rafforzato l’egoismo, ingigantito il male di vivere, esasperato i sentimenti negativi e allontanato quello slancio umano che aveva caratterizzato l’inizio della tragedia. Le promesse di bene si rivelano giuramenti al vento.

Dove?

Il luogo in cui il testo è nato e cresciuto è contemporaneamente reale e metaforico. Assecondo la mia abituale ricerca della ragione delle cose e discendo ancora più profondamente nella mia interiorità, che è la stessa di ogni essere umano. Esploro un mondo sotterraneo, labirintico “le stanze del Minotauro” dove si accampano il vissuto, le passioni, le ferite, la fragilità, la lotta, la perdita. Tutto ciò che rende il corso della vita più o meno tortuoso.  Il luogo è quello che io chiamo “Città poetica”, un “non luogo”, vero e immaginato, dove la vita inversa si svolge in un presente intemporale, in cui la memoria, la realtà, il sogno, i vivi e i morti convivono e dialogano. Parallelamente al mondo poetico, la vita reale impone la sua concretezza, svolge le sue giornate, apparentemente uguali, scandite dal diagramma dei bollettini di morte. Lo spazio-casa diventa la “Città domestica”, il luogo rassicurante, autosufficiente. La lentezza permette l’osservazione del dettaglio, la bellezza delle cose minute, i mutamenti della natura, il dialogo con gli animali (cani, gatti, pappagallo, tartarughe, pesci). Riattivo l’economia domestica disimparata (fare il pane, curare il giardino, cercare erbe per minestre, cucire, recuperare le cose dismesse). Assegno un nome agli spazi, progetto una toponomastica accurata di angoli e luoghi della casa (piazzetta di bacco, vialetto delle arance amare, via del vecchio lavatoio, pensatoio della civetta, aia dei quattro venti, vasca della contessa…) Intanto scrivo, ogni giorno, e solo così mi pare che la vita abbia senso.

Quando?

I testi che compongono questo libro riguardano una parte del periodo pandemico e la loro composizione si limita ad alcuni mesi del 2020. Trattandosi di una registrazione sistematica, possiamo dire che il libro è nato e si è strutturato naturalmente. In realtà tutta la mia poesia è da intendersi come un poema ininterrotto, di cui ogni libro rappresenta una stagione della vita.   Dirò che in genere la mia attività di scrittura (piuttosto che il singolo testo) è sostenuta da un progetto, che è quello di dare un senso al vissuto, dal concetto di essere documento nella storia personale e universale, dalla visione della realtà e della vita, che è quella della totalità (il vedere oltre l’apparenza, considerare la stratificazione del reale, indagarne le pieghe, le zone remote e insondabili). Ciò è possibile solo attraverso quello che io chiamo “sguardo inverso”, cioè la visione interiorizzata.

Perché?

Del titolo ho detto all’inizio. Aggiungo che concepisco la scrittura come una traduzione dell’immagine e, viceversa, come l’immagine si presti ad una interpretazione poetica. Ho scelto, a rappresentare in copertina la scena che il titolo evoca nella sua metafora teatrale, un’opera tra le tante dell’amico, poeta e artista concettuale Elmerindo Fiore. Il titolo dell’opera è “Una giornata in fumo”, parte di un trittico performativo, che mostra una figura maschile, con una maschera sul volto, occultata progressivamente dal fumo, che sale dal basso verso l’alto, fino all’occultamento totale. Folgorante il senso della vita divorata dal tempo, sino alla scomparsa. Come accennato, non esiste in me un progetto specifico nella nascita di un singolo libro, semmai il progetto si palesa alla fine, nella compattezza dei testi che ruotano intorno ad un nucleo temporale, alle vicende storiche, sociali e personali che in quel momento mi trovo ad affrontare. È chiaro che io concepisco il poeta come l’essere più ancorato alla realtà che si possa immaginare, uno che “vive il mondo nella carne”, come dice Maria Zambrano, che sente proprie tutte le sofferenze dei viventi, persino delle cose. Altrettanto chiaro è che non c’è nella mia scrittura nessuna intenzionalità diretta al lettore. Tuttavia sento profondamente la necessità della condivisione, la ricerca dell’incontro e del dialogo. Spero e sogno quello “shock del riconoscimento” che io stessa provo quando incontro una scrittura nella quale mi riconosco, una sensazione di grande gioia, una sorta di identificazione. Un libro che quando lo incontri diventa ispirazione. Queste tra le cose più belle che mi son sentita dire: “ho letto la tua poesia e ho ripreso a scrivere”, oppure “grazie di avere scritto questo libro”. Parole semplici, che dicono tanto del potere benefico della poesia.

La scrittura, quando nasce da una necessità interiore insopprimibile, ha una sua urgenza di manifestare ciò che si agita dentro e preme per uscire. Il poeta, in genere, non tollera limitazioni, è smisurato nel sentire, incontenibile nelle afflizioni e negli entusiasmi, affine in questo alle inquietudini adolescenziali. Il crescente, diffuso bisogno di poesia credo sia evidente, anche dalla quantità di scrittura che prolifera attraverso i mezzi telematici. Io stessa sperimento nella frequentazione di giovani poeti, con i quali condivido esperienze, incontri, eventi, come la poesia possa considerarsi, oggi più che mai, un bisogno espressivo potente, da opporre alla lingua banale della comunicazione. Al di là delle intenzioni, la poesia assolve il compito di leggere e comprendere il proprio tempo, contribuire al cambiamento, attraverso la sensibilizzazione e la riflessione, guardare al futuro per indicare nuove vie percorribili. Una scrittura consapevole si alimenta di una ricerca espressiva e linguistica continua, sostenuta da una ferma responsabilità individuale e sociale. Leggere poesia è per me un atto di umiltà, disponibilità ad ascoltare e modificarsi, a ricevere e donare bellezza.

scelti per voi

 

Per concludere, salutando i lettori.
Propongo tre testi esemplificativi dei temi intorno ai quali si articola la mia poetica:
gli opposti – lo sguardo inverso – la lingua.

 

La grammatica dell’armonia p. 67

Considera la grammatica dell’armonia
                             la declinazione del verbo dire
l’essere un fotogramma rubato
alla naturalezza di bambini al gioco
                                  – il corrusco / il solidale / l’estatico –
il fermare la corsa e la lentezza con uno spillo
che non fa sanguinare che l’anima dell’occhio.
                           l’esemplificazione della scena
                           in una recita senza testimoni
Scegliere un tempo per il dire
– l’infinito / la possibilità / la certezza –
                           e dare all’armonia un altro nome.

Questo primo testo esprime il concetto della vita dominata dai contrasti (vita-morte, bene-male, luce-buio, gioia-dolore…e potremmo continuare ad oltranza). Non è possibile scampare agli opposti, bisogna viverli o affrontarli, cercare il difficile equilibrio dell’armonia, “costruire quella pace momentanea che è una poesia”, – come dice Dylan Thomas – L’occasione di questi versi è nata nell’osservare dei bambini assorti nel gioco. Avevano espressioni diverse, ma insieme costituivano un momento sospeso, eterno nella sua naturalezza. Mi capita spesso di fissare degli attimi con le parole. Scrivo velocemente, di getto. Raramente torno sul testo per modificarlo.

 

 

E nelle crepe fiorirono violette p.22

Il tempo cronologico divenne oscillante
prolungandosi a volte – o contraendosi –
               come a noi sembrava opportuno che fosse.
Mutarono le cose – che erano le stesse –
La ripetizione dell’umore
                                        volgendo all’imprevisto
vide gli oggetti farsi umani
– sembrare che una pena li turbasse
                                        o una gioia repentina –
Fu che un mattino il viale parve abbandonato
                    l’aia più deserta.
Per la prima volta si destarono inversi l’anima e le cose.
L’una pietrificò
                     lastrico e muri ricordarono
                                      e nelle crepe fiorirono violette.

Il testo ruota intorno al tema della visione. “Lo sguardo inverso” è quello del “cieco”, dell’ “addormentato”, del “folle”, cioè di chi accede alla realtà non attraverso l’organo della vista, ma attraverso altri canali: l’interiorità, che possiede conoscenze acquisite mediante la sensorialità , il sogno che si manifesta quando non si è coscienti, la follia, visione alterata del reale. Questo testo è nato dall’apparizione in un angolo del giardino di un’isola di viole, esplose in quel punto, ma estese a ciocche tra le pietre dei muri e nelle crepe del pavimento dell’aia. Ebbi l’impressione che il tempo si fosse fermato, ricordai l’infanzia, provai uno smarrimento in cui la gioia e la pena si erano confuse. Mi parve che la vita fosse emigrata nelle cose e noi umani fossimo pietrificati nell’immobilità pandemica.

 

 

Parola / sei stata lancia e scudo p. 80

Qui non abita che il suono – della tristezza –
il respiro del corpo
                               il canto – solo –
Non più rivolta ma sogno addomesticato
fiato che era pronuncia / e parola battente.
Hai ferito?
                   quanto?
                               e veramente lo desideravi?
Parola – ti ho cesellata – Sei stata lancia e scudo.
Il tuo posto non è – accanto –
Eri in me
                ti dominavo.                     Quando?

Questa terza poesia batte sul tema ricorrente della lingua (saperla dominare, cioè usarla con destrezza, è un po’ il mio chiodo fisso). Cercare “la lingua giusta” significa lavorare sul linguaggio sino a trovare il modo unico e irripetibile di esprimere un concetto. La parola poetica è diversa dalla lingua della comunicazione. Essa è sorgiva, perché dice per la prima volta, è prosciugata, perché è essenziale, oscura, perché parla di un altrove, luminosa, perché ha accesso alla verità (come si vede, anche qui tornano gli opposti, pacificati nella poesia). In questo testo alludo alla doppiezza della lingua, lama a doppio taglio, parola che ferisce o che guarisce (opposti anche questi).
Per chi scrive, la consapevolezza di aver prodotto un buon testo, cioè di essere riusciti ad esprimere esattamente ciò che si voleva è la prima, importante gratificazione, una sensazione di appagamento. È ovvio però che la poesia conserva il suo margine di oscurità, di profetico, ineliminabile e necessario all’interpretazione di chi legge, anche all’autore stesso. Il mio amico Fiore ed io ci diciamo sempre “ciò che non sappiamo, la poesia lo sa”.

 

la foto in copertina è di Antonio Santamaria

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